11 Aprile 2011 17 commenti

The Killing – Chi ha ucciso Rosie Larsen? di Marco Villa

Un thriller griffato AMC

Copertina, Pilot

Dopo Mad Men, Breaking Bad, Rubicon e The Walking Dead, AMC è ormai a tutti gli effetti la rivale diretta di HBO in quanto a qualità e stile, dove per stile si intende grande cura, racconti orizzontali e una dilatazione narrativa che a tratti diventa vera e propria lentezza. Dato l’altissimo livello raggiunto in precedenza, grande attesa anche per questo The Killing, thriller annunciato da mesi con promo stuzzicanti che occhieggiavano a Twin Peaks. Un’attesa che non si limita a essere quella per una serie promettente, ma per un vero e proprio evento: di fatto, i titoli citati in precedenza (con la parziale eccezione di Rubicon, che pure aveva un seguito agguerrito) sono diventati qualcosa di più di semplici produzioni, creando un vero e proprio culto.

Ebbene, The Killing non delude nessuna di queste aspettative, candidandosi a essere uno dei telefilm americani più importanti della stagione. Come da tradizione 2011, si tratta di un remake. L’originale questa volta non è inglese, ma danese. Se il passaggio dall’accento londinese a quello nordamericano ci ha fatto più volte storcere il naso per l’apparente inutilità, in questo caso la scelta sembra molto più sensata. Dire che una serie possa essere seguita in danese come se niente fosse, mi pare infatti segnale di un livello di fighetteria snobistica ben oltre le soglie del ridicolo. Ok, chiusa l’introduzione e la parentesi polemica, è il momento di entrare nel vivo del discorso.

Come l’originale Forbrydelsen, The Killing ruota intorno a una semplice domanda: chi ha ucciso Rosie Larsen? I primi due episodi, andati in onda il 3 aprile, servono proprio a porre questo interrogativo e a mostrare come si cercherà di darvi risposta. È un’indagine, ovviamente, ma la serie non si limita a essere un semplice crime.
L’omicidio di questa diciassettenne viene infatti raccontato su più livelli. C’è il livello canonico dell’investigazione, portata avanti da una poliziotta fredda e disillusa e dal suo partner giovane e irriverente. Se lui è abbastanza vicino a classici cliché del poliziotto, lei se ne distacca con forza. A cominciare dallo stile nel vestire, passando per un approccio comunicativo quasi monocorde, il personaggio interpretato da Mireille Enos (Big Love) è decisamente un corpo estraneo rispetto al genere, ma anche alla serie stessa. Pur essendo figure molto diverse, la detective Sarah Linden rimanda a un’altra poliziotta che attraversava come un’aliena la vicenda in cui era immersa. Il riferimento è a Marge Gunderson (altro nome scandinavo), lo sceriffo di Fargo interpretato da Frances McDormand. Personaggi diversi e quasi opposti nell’atteggiamento, ma accomunati da una profonda diversità e apparente lontananza dalle tragedie che scorrono di fronte ai loro occhi.

Il secondo livello è famigliare e riguarda i genitori e i fratelli di Rosie. Nei primi due episodi, il dolore dei Larsen viene raccontato in modo straziante: la scena del ritrovamento del cadavere riesce a mantenere un equilibrio perfetto tra dramma e compostezza, avvicinandosi pericolosamente al melodramma, ma senza mai superarne il confine. Ciò che colpisce nella famiglia è la normalità: come la poliziotta ha una vita del tutto canonica, maglioni da grande magazzino e un atteggiamento da persona media, così la famiglia Larsen sembra vivere in una tranquillità che raramente si trova in una serie. Non ci sono tracce di alcolismo, tradimenti, segreti o debiti. Una famiglia normale, alle prese con un lutto devastante.
Il terzo livello è quello che, al momento, è stato meno sviluppato. Si tratta della vicenda di un candidato sindaco e del suo staff, che in qualche modo si interseca con l’indagine sull’omicidio. L’importanza con cui è stata presentata è segno che questa sottotrama verrà ampiamente battuta nei prossimi episodi, ma al momento rimane marginale, di fatto impossibile da valutare.

La carne messa al fuoco è tanta, la realizzazione molto buona. La filiazione dall’originale danese si ritrova in uno stile marcatamente europeo. Innanzitutto per la rinuncia al protagonista-eroe (sia esso classico o maledetto), in seconda battuta per impostazione visiva e messa in scena, che ricordano The Ghost Writer di Roman Polanski. Nel volgere di poche inquadrature, la fotografia glaciale e i lenti movimenti di macchina riescono a creare un mondo. Un mondo che nella finzione è Seattle, nella realtà della produzione è il Canada e nella mente dello spettatore un posto agghiacciante. Come da tradizione AMC, il ritmo è tutt’altro che forsennato, ma al momento pare del tutto funzionale al tipo di racconto. Il primo episodio è infatti una implacabile e tragica marcia di avvicinamento al ritrovamento del cadavere. Sappiamo già dal titolo che Rosie è morta, non ci sono speranze al riguardo: eppure la ricerca, l’indagine esplorativa, le speranze della famiglia e l’angoscia crescente riescono a trasmettere una tensione paragonabile a una situazione di mistero, in cui nulla è certo.

La partenza è di quelle con il botto. Adesso viene il bello – e il difficile.

Previsioni sul futuro: le indagini si svilupperanno con grande lentezza, ma senza negare allo spettatore una tensione costante e improvvisi colpi di scena.

Perché seguirlo: perché AMC non sbaglia un colpo e le premesse – compreso il successo dell’originale danese – ispirano grandissima fiducia.

Perché mollarlo: perché siete stati tratti in inganno da quel “chi ha ucciso Rosie Larsen?”. È l’unico aggancio con Twin Peaks: niente nani, niente donne con il ceppo, niente crostate di ciliegie. In compenso Sarah Linden mangia quantità industriali di caramelle (alla nicotina?)



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