6 Marzo 2012 5 commenti

Sherlock di mimmogianneri

Sherlock della BBC

Capita che un recensore di Serial Minds si trovi in difficoltà, perché ci sono in giro troppe serie valide ed è costretto a trovare il modo di dire in modo originale “quest’ultima è figherrima”.
È un problema comune agli appassionati, anche nella vita quotidiana, quando segnali con massimo entusiasmo una nuova serie al tuo amico barbaro che vuoi convertire, ma lui – ingrato – nicchia (“eh per te sono tutte belle!”) e tu lo vorresti strozzare, spezzettare, gettare nel Tamigi. Ma non lo fai, perché sei gonfio come un alcolizzato di crime e sei certo che il poliziotto incaricato delle indagini ti sgamerà immediatamente, come Grissom. O peggio, come Sherlock. Il quale mentre ti sgama, ti umilia.
Ok, barbari o baricchi voi siate: Sherlock è una figata. In questo post provo a convincervi del perchè.

Prima di tutto, una premessa fondamentale: la durata. Non ci stancheremo mai di ripetere il grande merito degli inglesi: tendenzialmente non sbrodolano. Ovvero: le serie durano il giusto. Sherlock (BBC One) consta di due stagioni da tre (tre) puntate l’una. Ah, che goduria il capitalismo compassionevole britannico. Mai più l’ansia di dover recuperare 40 ore di Lost, di Prison Break, ecc. Certo, ogni puntata ha la durata notevole di 90 minuti circa. Ma passano, tranquilli, passano. Provare per credere. Il pilot, poi, è subito coinvolgente, efficace, ben scritto e diretto.

E qui andiamo al primo punto. Chiunque abbia letto alle medie Sherlock Holmes di Conan Doyle (vanno bene anche le versioni di Topolino) sa che il nodo centrale è – udite udite – l’indagine. Senza un mistero davvero intricato da sgarbugliare, evidentemente, la serie perderebbe ogni sua ricchezza. Questo non è un aspetto da poco: anche se la base di partenza (le novelle originali) fa tanto, non può che farci gongolare vedere una tale perizia nella scrittura.

Secondo punto (l’ultimo, quello lungo). Il protagonista.
Sherlock condensa alcuni caratteri socioantropologici di molti personaggi di successo delle serie degli ultimi anni. Lo ha già scritto il caro Villa: «Sherlock ha la cieca fiducia nella razionalità e nella scienza di Grissom, il cinismo e l’eccentricità di House, un atteggiamento e una mente da sociopatico egoico che ricorda sia Sheldon Cooper di The Big Bang Theory sia il Mark Zuckerberg di The Social Network».
Andando un po’ ad approfondire, è vero anche il contrario: Sherlock Holmes (di Conan Doyle) è il primo grande ispiratore sia del genere investigativo sia di alcuni nostri grandi beniamini (wiki ci aiuta): House, Monk, Patrick Jane di The Mentalist, lo stesso Grissom si ispirano a Sherlock e il nuovo Sherlock si permea dei loro tic e delle loro caratteristiche umane e psicologiche. Il cerchio si chiude. Vedi Sherlock e poi muori.

Eppure, c’è anche uno scarto notevole rispetto alla tradizione letteraria.
Per un verso, questa differenza è rappresentata dalla contestualizzazione ai giorni nostri. E’ divertente notare quanto sia stato accurato (e sensato) l’adattamento al duemila: Watson è reduce dall’Iraq e scrive un blog, Sherlock usa il cellulare – anche se in modo eccentrico (scrive solo sms) – e cerca le informazioni su internet, suo fratello lavora a Westminster.
Per l’altro verso, è proprio il modo di ragionare di Sherlock a essere un upgrade geniale rispetto alla tradizione del più famoso investigatore della storia.
Non sono un grandissimo appassionato di Doyle. Ricordo però qualche racconto: per esempio, L’orologio, all’interno de Il segno dei quattro. Sherlock prendeva un orologio a cipolla e dai pochi dettagli desunti dall’osservazione ricostruiva la storia del possessore.
Ecco, il cervello dello Sherlock 2.0 è parzialmente diverso. Quando il caso è risolvibile in poche battute, Sherlock osserva, immagazzina le informazioni con la sua straordinaria memoria eidetica e giunge a conclusioni insperate (secondo la massima “Quando hai eliminato l’impossibile, qualsiasi cosa resti, per quanto improbabile, deve essere la verità”). La storia de L’orologio, per esempio, viene attualizzata abbastanza fedelmente nella prima puntata della prima stagione (l’oggetto in questione non è più l’orologio a cipolla, ma il cellulare di Holmes).
Quando però il caso è più complicato, Sherlock (2.0) si limita a “registrare” i dati nel suo cervello-database, cioè in una sorta di hard disk esterno (o cloud, se preferite), dal quale recuperarle, quando serve, in questo modo:

Sostanzialmente, Sherlock della BBC è un uomo-google. Un genio che non ha bisogno di sapere ogni cosa, di leggere mille milioni di libri e studiare chino su una scrivania.

No, lui recupera le informazioni, aprendo una serie di finestre memoriali, esattamente come quando noi cerchiamo una notizia in rete cliccando su decine di schede in cerca del sito più attendibile.

Siamo arrivati al dunque: se dovessimo a un certo punto comporre una carta d’identità-tipo del personaggio principale di molte fiction recenti (soprattutto americane) ne emergerebbe il ritratto di un (super)uomo/donna poco sano mentalmente, colto ma in modo assolutamente sui generis o da autodidatta (i tempi del professore universitario avventuriero Indiana Jones sembrano lontanissimi), quindi sostanzialmente un nerd. Ma con un’enorme capacità di comporre quadri di relazioni (tra le persone, i dati, gli eventi…) tipo questo:

La bacheca è un motivo iconografico ricorrente in moltissime serie (Life, Flashforward, Homeland… continuate voi) e credo che questo sia legato (tra le altre cose, eh) all’idea che l’operazione principe richiesta oggi al nostro cervello è quella di unire i puntini. Quel che mi sembra Sherlock a modo suo dica – insieme a tanti altri personaggi di cui lui è una sintesi – è che nel momento in cui ogni informazione è potenzialmente acquisibile, e va “solo” scovata in rete, il nostro compito diventa quello di cartografare il sapere: cioè di capire quali informazioni ci sono utili, selezionarle e poi sapere raffigurare i legami, le connessioni sensate all’interno di un’enorme rete di relazioni potenziali.

Insomma, Sherlock della BBC è l’utente modello dei mondi virtuali che siamo chiamati a navigare ogni dì.

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