11 Luglio 2013 1 commenti

In Treatment (versione italiana) – Dai che ce la facciamo a fare buona fiction di mimmogianneri

Elogio di una roba italiana e (ma) fatta bene

Copertina, On Air

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Prima di cominciare a vedere la versione italiana di In treatment targata Sky avevo un pregiudizio decisamente negativo. L’intenzione iniziale era di limitarmi alle prime cinque puntate e poi fare un confronto tra l’italiana e l’americana, più nota al grande pubblico, con il malcelato intento di dare il classico pagellone agli autori di casa nostra. In realtà, In treatment Italia (da qui in poi, solo In treatment) mi ha conquistato fin da subito. Vediamo perché.

In treatment è tratta dall’israeliana Be Tibul, serie applauditissima e adattata in un botto di paesi. Perché è bella, perché è scritta da Dio. Quali erano le difficoltà alla porta di una versione adeguata al contesto italiano? Per quanto mi riguarda, una sola: la cinemaitalianizzazione del prodotto. Cioè, in ordine sparso. Prendere l’attore sulla cresta dell’onda che monetizza il proprio successo recitando in trenta film in un anno anche se in molti di questi il suo volto non c’azzecca per niente. Scrivere dialoghi di merda. Ambientare tutto in salotti borghesi. Cercare di far ridere/piangere con una macchinosità lampante o imitando, male, cliché esteri. Infine, scritturare Toni Servillo.

In Treatment CastellittoPrimo merito di In treatment: lo psicologo protagonista (Giovanni) è interpretato da Castellitto, cioè da uno davvero bravo e, qui, in parte. Di Castellitto mi entusiasma in particolare la sua tipica espressione del personaggio carismatico incazzato-passivo-aggressivo. Credo sia un’espressione inventata da lui o, comunque, è il più bravo al mondo a farla. Vi ricordate quando si innervosisce, sorridendo e covando indignazione, in L’ora di religione? Ecco, più o meno mi riferisco a quella faccia. In In treatment la fa abbastanza spesso. E ciò, sarò di gusti semplici, mi esalta. Ma non c’è solo Castellitto, tra gli attori bravi di In treatment.

La serie tratta le sedute di quattro pazienti nello studio di Giovanni, uno psicoanalista romano di fama. Il lunedì accoglie Sara, ragazza dal sesso facile, interpretata da Kasia Smutniak. Il martedì Dario, un infiltrato dei carabinieri dalla psiche impenetrabile con il volto di Guido Caprino; il mercoledì una giovane ballerina (forse) aspirante suicida, Alice (Irene Casagrande); il giovedì una coppia in crisi, interpretata da Adriano Giannini e Barbara Bobulova. Infine, il venerdì Giovanni, in crisi coniugale e professionale, si reca dalla sua analista, una Licia Maglietta un po’ invecchiata, tutta ascolti silenziosi, consigli e sospiri.

Come promesso, non darò i pagelloni. Esprimo però una preferenza per i due attori meno conosciuti, Caprini e la Casagrande, i quali mi sembra non abbiano alcuna caduta di credibilità nel corso di tutte le sedute. La scelta di puntare su questi volti è il più forte ed evidente marchio di qualità della serie, di sicuro quello più in controtendenza con la cinemaitalianizzazione; ogni attore, infatti, porta con sé inevitabilmente i ruoli interpretati in passato, quelli rimasti nella memoria in positivo e in negativo. Così, per esempio, io parto prevenuto quando in un film c’è la Bobulova perché, nonostante la sua indubbia bravura, non posso far altro che pensare al tossico Cuore sacro di Ozpetek. In In treatment gli interpreti vestono i personaggi molto bene, anche in relazione alla loro storia… di attori.

In una serie costruita quasi esclusivamente sui dialoghi, poi, la regia di Saverio Costanzo è abile nel trovare soluzioni discrete ed efficaci per i Kasia Smutniak 4classici campi/controcampi (cioè i dialoghi faccia a faccia tra paziente e analista). Bravo Savio. Certo, il merito va ascritto principalmente al plot originale. Gli scambi di battute di In treatment sono davvero fantastici: mai netti o forzatamente memorabili, girano intorno a episodi apparentemente irrilevanti che poi diventano grandi punti di conflitto o di svolta, come ci si aspetterebbe dall’argomento affrontato. Sia ben chiaro: di psicoanalisi ne so poco e non voglio avventurarmi. Dal mio osservatorio “esterno”, posso solo provare a descrivere il racconto della psicoanalisi proposto da In treatment. Del resto, ai neofiti (o amatori) di questioni psicoanalitiche importa solo marginalmente la capacità della serie di raccontare in modo realistico cos’è la psicoanalisi o cosa accade durante una seduta. Di fatto, in In treatment il dialogo paziente-terapeuta è più uno scontro dialettico, che uno scavo. Durante le sedute, i pazienti cercano di raccontarsi e di capirsi mentre Castellitto li pungola, a volte in modo conflittuale, iniziando spesso la frase con un “forse”, come ad indicare il carattere ipotetico di ogni discussione, la possibilità che quella asserzione o opinione possa e debba aprire a una soluzione alternativa.
Una esemplificazione di questo discorso è nella puntata 17, quando Sara racconta le diverse prospettive con cui si immagina la stessa scena di sesso (detto per inciso, Kasia Smutniak fomentata che disquisisce di fellatio vale già il prezzo dell’abbonamento). In tal senso, la psicoanalisi raccontata da In treatment è un appassionante atto creativo in diretta. Allo spettatore “comune”, la serie consegna l’impressione generale di assistere a una fenomenale indagine in forma di dialogo sulla complessità delle cose, il cui risultato è il continuo schiudersi di fronte ai suoi occhi di piccole grandi consapevolezze come puro risultato della capacità dell’ingegno umano di produrre punti di vista trasversali. E ciò ha molto a che fare con la scrittura cinematografica e, in particolare, con la tradizione del cinema “di parola”, dove il dialogo è il motore dell’azione e il barometro dei rapporti di forza tra i personaggi.

Detto questo, e per finire, vorrei fosse chiaro che non è una serie per tutti. Innanzitutto, perché condizione necessaria per bersela in allegria (si fa per dire…) è essere subito coinvolti dalle storie e dai personaggi. A me, per esempio, non ha particolarmente preso la in-treatment-bakstagevicenda dei due sposi in rotta. In treatment racconta un’Italia ricca e borghese: stiamo parlando di pazienti che possono permettersi di andare da Giovanni/Castellitto, psicologo rinomatissimo da 100 euro l’ora… I suoi personaggi appartengono di fatto a un’élite, che poi è anche quella del pubblico a cui è rivolta la serie. Il cerchio si chiude, un cerchio molto piccolo: posti tutti i nostri “bravo” a Sky (e a Wildside), la domanda di fondo è se esiste un numero sufficiente di spettatori “di qualità” (perdonatemi l’espressione scivolosissima, ci siamo capiti) tale da giustificare produzioni del genere. La risposta credo sia nelle cose, ma speriamo sia come quella di Quelo, sbagliata.

 

P.S. Carissimi adattatori italiani, ascoltate una cosetta. In italiano “Ti amo”, a differenza di “I love you”, si usa solo nei confronti della persona con cui hai fatto o vorresti fare all’amore. Per gli altri, si tende a dire “Ti voglio bene”. Dunque, quando il padre di Alice ripete alla figlia “ti amo… ti amo… t’ho amata…”, ecco, suona davvero male. Vi stimo lo stesso e a tratti vi ho addirittura amato, cioè, no, ehm, voluto bene.



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