23 Febbraio 2018 5 commenti

Homeland – Nessuna crisi del settimo anno (almeno per ora) di Marco Villa

Homeland è cambiata di nuovo e a noi continua a piacere tantissimo

Copertina, On Air

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Nel corso degli anni, Homeland è la serie che è morta, risorta, rimorta e ri-risorta. A ripensare a come iniziata, quasi non ci credi: la storia dell’eroe di guerra che si rivela traditore sembra lontanissima, sembra appartenere a un’altra serie. Iniziata come il racconto di una storia tormentata tra lavoro e sentimenti, nelle stagioni Homeland è diventata una serie di spionaggio piuttosto classica: prima nell’ambientazione irachena, poi nell’ambientazione europea. La sesta stagione della serie di Showtime è quella che ha dettato il cambio di passo: il ritorno degli Stati Uniti e la rinuncia a un plot tipico delle spy story.

Non più la minaccia del terrorismo esterno, che aveva caratterizzato seppure in modo diverso tutte le prime cinque stagioni, ma un focus sul terrorismo interno, sia quello armato di fucili, sia quello che lavora sulla manipolazione dell’opinione pubblica. Nella sesta stagione, il tradimento che Brody provava a portare a termine nelle primissime puntate raggiunge il compimento: Dar Adal lancia il suo attacco al cuore dello Stato, attacco che viene sventato grazie all’intervento di Carrie e Saul e al sacrificio di Peter Quinn, l’uomo più martoriato della storia della serialità.

Il finale di stagione era a due facce: a pochi minuti dalla fine dell’ultima puntata, tutto sembrava rimesso a posto, con la neo presidente pronta a insediarsi senza più il pericolo di attacchi da parte dei suoi stessi consiglieri. La vera e propria chiusura, però mostrava una presidentessa che aveva cambiato volto, spaventata dall’attentato che aveva subito e forse molto più opportunista e doppiogiochista di quanto tutti si aspettassero.

I nuovi episodi partono proprio da qui dalla profonda delusione di Carrie, da Saul in prigione e da un paese che si trova governato da una persona radicalmente diversa da quella che aveva eletto. Questo cambiamento di scenario viaggia in parallelo a un cambiamento di tutta Homeland. Dopo aver combattuto per anni per mantenere lo status quo e sconfiggere chi voleva mettere in pericolo e in dubbio l’intero sistema di valori statunitense, ora è la stessa Carrie a vestire i panni della ribelle che cerca di rovesciare il legittimo governo del proprio paese.

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Alle tante sfaccettature del genere che Homeland ha sempre esplorato, la settima stagione aggiunge una carta importante: la serie è sempre stata basata su un equilibrio di potere e informazioni, dove il primo è sempre dipeso dalle seconde. Questa stagione ci mostra invece come il potere puro, quello dato non da una soffiata, ma da un voto in cabina elettorale, possa essere pericoloso. La paranoia della neo-presidente e la sua incapacità di gestire la propria onnipotenza è probabilmente il tratto più importante del nuovo corso di Homeland.

Altra figura interessante, per quanto rischiosa, è quella di Brett O’Keefe, il predicatore stile tea party che era il referente della campagna mediatica anti-presidenziale e che ora si trova in fuga: il suo personaggio era il male assoluto, mentre ora sta diventando una sorta di don Chisciotte. Arco narrativo particolare, ma estremamente contemporaneo, in epoca di fake news usate per crearsi credibilità e spessore.

Come si diceva in apertura, Homeland è la serie che è stata capace di cambiare in maniera più radicale, senza mai tradire se stessa. L’avvio di questa settima stagione è solo un’altra stelletta al merito.

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