23 Gennaio 2019 6 commenti

Valley of the Boom – La serie sulla Silicon Valley che mischia tutti i generi di Marco Villa

Valley of the Boom non è un documentario, non è una fiction, non è niente di definito e per questo ci piace assai

Copertina, Pilot

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Il bello che arriva dagli incroci, dai mischioni, da quello che non è ben definito. Da quello che non è né carne, né pesce, ma per una volta la frase fatta non è connotata in senso negativo.

Valley of the Boom è una nuova serie di National Geographic, in onda dal 13 gennaio e creata da Matthew Carnahan (Dirt e House of Lies). La valle del boom del titolo è la Silicon Valley e il contesto è quello degli anni ‘90, per la precisione i giorni in cui Netscape viene quotata in borsa a cifre record, dando il via a quella che passerà alla storia come la bolla della New Economy. Che ok, di bolla si tratterà e porterà a grossi scompensi verso la fine, ma è anche la fase che porta in California quei fondi e investimenti che permettono a tutta l’industria tecnologica di compiere un enorme passo avanti e, di fatto, creare le basi per permetterci oggi di pubblicare questo pezzo, a voi di leggerlo e magari condividerlo su un social network in due passaggi.

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Valley of the Boom segue tre storie: la prima è quella di Netscape, presentata come la capofila della rivoluzione. Qui i personaggi sono tre: il CEO Jim Barksdale (Bradley Whitford, sempre sia lodato) e i due cofondatori Jim Clark (John Murphy) e lo sviluppatore-genio Marc Andreessen (John Karna). La seconda storia è quella di Theglobe.com, di fatto progenitore dei social network, fondato da Todd Krizelman (Oliver Cooper) e Stephan Paternot (Dakota Shapiro), che seguirà l’esempio di Netscape e arriverà in borsa a cifre ancora più alte. La terza storia è invece quella di Michael Fenne (Steve Zahn), personaggio pittoresco che cerca di inserirsi nel ben di dio della Silicon Valley con quella che di fatto è una truffa bella e buona. Tre storie che, pur tra mille differenze, seguono però lo stesso percorso: fatica, soldi, entusiasmo, rapido declino, fallimento.

A non fallire è invece questa serie, che fin da subito si presenta come un ibrido interessante tra vari generi. A prima vista è una docufiction: protagonisti reali intervistati, attori a interpretarli nelle ricostruzioni. Certo, può suonare strano avere in un contesto del genere un attore come Bradley Whitford, che da queste parti adoriamo dai tempi in cui era Josh Lyman in The West Wing, ma amen. Basta però proseguire un quarto d’ora nella visione per capire la diversità radicale di Valley of the Boom: la serie, detta facile, non si fa problemi nell’inglobare ogni possibile stimolo e direzione. Oltre a interviste e ricostruzioni, nel primo episodio c’è un piccolo numero di musical, un momento del tutto metalinguistico e una terza situazione che prende documentario e fiction e li fa esplodere.

Mi spiego: il momento musical arriva solo perché… perché no? Non ha attinenza, non ha una motivazione logica, semplicemente ci poteva stare. E già qui mettiamo via un po’ di bella follia. Il momento metalinguistico è quello più dirompente, perché arriva quando, durante un’intervista, uno dei personaggi dice candidamente che no, lui in realtà non è davvero quella persona, ma un attore che lo interpreta: un passaggio che sarebbe perfetto in un mockumentary, ma che diventa dirompente nel momento in cui avviene in un prodotto in cui ci sono davvero personaggi reali. E poi arriva l’ultimo punto, quando l’attore che interpreta Marc Andreessen manda in freeze la serie per muoversi tra i personaggi e spiegare al pubblico chi sono e cosa fanno. Ne ho citati tre, ce ne sono altri, compreso un siparietto con un divertito Lamorne Morris (Winston di New Girl) negli improbabili panni di un broker.

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Tutto questo, tutto insieme. Con in più la forza di una storia che ha un fascino innegabile e che racconta tanto dei nostri tempi. Valley of the Boom ha tanti pregi, ma non è tutto rose e fiori: innegabilmente questo accumulo di diversità porta a una certa confusione: la storia non è lineare, si accartoccia su se stessa e a tratti è evidente che l’attenzione è più allo stile che al racconto. Però ci può stare, perché la non perfezione a volte è anche meglio della pulizia assoluta. Non sempre eh, ma Valley of the Boom è uno dei casi in cui è chiaramente così.

Perché guardare Valley of the Boom: per il suo essere fuori da ogni genere

Perché mollare Valley of the Boom: perché non sempre la storia è chiarissima

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