13 Febbraio 2019 9 commenti

The Punisher 2 – Una bella stagione, senza rimpianti di Diego Castelli

Potrebbe essere l’ultima volta che abbiamo visto The Punisher ma, se anche così fosse, saremmo soddisfatti

Copertina, On Air

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Quando abbiamo iniziato a vedere la seconda stagione di The Punisher, i sentimenti erano già tutti scombussolati prima ancora di premere il primo play. Tutta colpa, naturalmente, delle recentissime cancellazioni di Daredevil, Luke Cage e Iron Fist, che gettavano un’ombra molto scura sulle due serie rimaste in vita, The Punisher e Jessica Jones. Considerando che non si sapeva e non si sa tuttora (ma le previsioni sono funeste) cosa ne sarà di loro dopo queste nuove stagioni, è forte l’impressione di trovarsi di fronte agli ultimi canti del cigno dell’accoppiata Marvel-Netflix, in attesa di capire in che modo abbia influito sul suo destino la volontà accentratrice di Disney, proprietaria del marchio Marvel e pronta a lanciare la sua personale piattaforma di streaming, dal nome super super accattivante di “Disney+”.

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Insomma, c’era la voglia di rivedere Frank Castle che spara ai cattivi, ma c’era anche la malinconia legata al non sapere nulla del suo futuro. Immaginate poi cosa è successo quando, verso fine stagione, abbiamo visto comparire Karen Page, che giustamente si presentava ancora come amica della premiata ditta Nelson & Murdock: in pratica il fantasma di un passato cancellato, e che probabilmente non tornerà nella forma in cui l’abbiamo conosciuto finora.
A parte questi scompensi emotivi extra-seriali, però, una cosa la possiamo comunque dire: la seconda stagione di The Punisher ha funzionato alla grande, probabilmente in virtù della sua semplicità.

In questi anni, Daredevil & Co. hanno dato molta importanza all’azione, come è giusto che sia, ma non hanno mai lesinato sugli intrighi, i sotterfugi, le trame di palazzo. Che fossero le macchinazioni di Wilson Fisk, o i piani malefici della Mano, nelle altre serie Marvel-Netflix c’era sempre la necessità di costruire una cornice narrativamente ricca (a volte, diciamolo, pesante) per inserire i personaggi in un tessuto denso e interconnesso.
Col Punitore, invece, si va via più lisci. Le due trame principali della stagione (la resa dei conti contro Billy Russo e la protezione della giovane Amy) scorrono quasi parallele, ed entrambe hanno gli stessi due obiettivi principali, chiari e precisi: scavare nella psicologia depressa e danneggiata di Frank, e dargli motivo di menare come un fabbro.

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Il rischio, corso qui è là, è quello di essere banali e/o ripetitivi: se la sceneggiatura deve insistere continuamente sui ricordi familiari del protagonista, e nel frattempo trovare scuse per sparatorie e pestaggi sempre più frequenti, il rischio è di semplificare o ripetere troppo. Allo stesso tempo, però, The Punisher è una serie di azione violenta, che non può permettersi di dedicare intere puntate a semplici dialoghi senza una goccia di sangue.

In questo senso, il lavoro fatto è stato buono: perché l’affetto che Frank finisce a provare per Amy ci sembra genuino e motivato (benché adagiato sul cliché del vecchio mentore che incontra un inaspettato apprendista); perché la sfida con Russo riesce a raggiungere un parossismo adeguato a due personaggi matti come cavalli; e perché il personaggio di John Pilgrim – interpretato da quella faccia da killer-morto-di-sonno di Josh Stewart – è riuscito a imporsi con la sua forza tutta inquietante e fumettosa, quanto basta per rendere gustoso il suo massacro.

Non sono mancate sbavature, come caricare così tanto il rapporto fra Frank e la bella barista Beth, per poi farlo sparire dalla circolazione e da qualunque dialogo o pensiero dopo tre episodi, ma in compenso alla fine c’è un sospirone: la seconda stagione di The Punisher finisce nel vero senso del termine, portando a conclusione entrambe le linee narrative principali. Cosa gradita nel momento in cui, con ogni probabilità, la seconda stagione sarà anche l’ultima. Almeno non rimaniamo appesi a qualcosa che mai si risolverà.

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Ma al netto di una sceneggiatura magari non eccezionale, benché sicuramente funzionale, il bello di una serie come The Punisher sta altrove. È una questione visiva, uditiva, cinetica. Le urla rombanti e schizofreniche di Jon Bernthal, le ferite sul suo corpo, le coreografie delle scazzottate, gli occhi spiritati di questo o quel personaggio, nell’atto di prepararsi all’ennesimo bagno di sangue. The Punisher è una serie d’azione, come detto sopra, e da questo punto di vista non ha mai sbagliato un colpo, con sequenze sempre carichissime e sopra le righe ma ancorate a una realtà molto grezza e materica: non ci sono superpoteri, in The Punisher, quindi non ci sono spruzzi di energia e raggi laser. In compenso, però, le abilità e la resistenza sovrumane di Frank, unite alla sua totale spietatezza (segno distintivo del personaggio rispetto ad altri suoi colleghi in tutina), danno alla serie il suo stile personale e distintivo, e fanno scattare tanti applausi.

Il genere più saccheggiato, da questo punto di vista, è il western, che da sempre influenza il cinema d’azione e poliziesco anche a prescindere dai cavalli e dai saloon. Nel caso di The Punisher, è facile riconoscere in più punti le macrostrutture ma anche i singoli dettagli dell’epica western: i bar pieni di fuorilegge da picchiare, la strenua resistenza di pochi eroi dentro l’ufficio dello sceriffo assaltato dai banditi, veri e propri duelli in cui la velocità di Frank con le pistole gli permette di avere ragione di cattivi più numerosi ma meno abili di lui. Senza contare, naturalmente, i temi della vendetta personale, dell’eroe solitario che arriva in città a raddrizzare i torti, del rapporto fra religione e potere. Insomma, se qui e là comparissero John Wayne o Clint Eastwood non ci sarebbe niente di strano.

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In questa commistione fra una scrittura semplice ma efficace, e un armamentario tematico e iconico talmente riconoscibile da essere subito classico, The Punisher riesce a essere una serie estremamente accessibile, ma che colpisce per la sua qualità nuda e cruda, per il valore quasi artigianale con cui assembla le sue componenti. Nell’ultimissima inquadratura, quella in cui un Castle libero da certi fantasmi del recente passato si presenta tutto contento a un ritrovo di teppisti, con un mitra per mano e tanta voglia di massacro, ci lascia addosso un primitivo entusiasmo e un piacevole senso di completezza: The Punisher è una bella serie, che fa esattamente quello che promette, e che non ci lasciato in eredità storie in sospeso di cui forse non scopriremo mai la fine. Se davvero è finita qui, non avremo rimpianti.



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