7 Giugno 2019 18 commenti

Black Mirror 5 – La peggior stagione finora di Diego Castelli

Stavolta l’esimio Charlie Brooker non aveva tanta voglia

Copertina, On Air

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A Serial Minds ci capita spesso, senza che la cosa sia minimamente frutto di una strategia preordinata, di difendere cose che la maggior parte dei critici detesta, e di bocciare prodotti che altrove hanno già fatto il pieno di lodi.
Per questo, quando hanno cominciato a fioccare le recensioni negative sulla quinta stagione di Black Mirror, mi è subito venuto su il friccicore, del tipo “adesso guardo i tre episodi e poi vi faccio vedere di cosa è capace uno che ha guardato tonnellate di legal pieni di avvocati difensori con le palle quadrate”.

E invece no.
La quinta stagione di Black Mirror è la peggiore finora. E il motivo è molto semplice.
Quando la serie di Charlie Brooker è approdata su Netflix, aumentando il numero degli episodi e passando a un tono per certi versi più buonista e meno inquietante, noi l’avevamo difesa non tanto perché non riconoscevamo quegli elementi, quanto perché ci sembrava non fosse comunque venuta meno la voglia di sperimentare, di creare, di sondare con attenzione i tentacoli invisibili allungati dalla tecnologia sulle nostre coscienze, inserendo quelle riflessioni in un racconto coerente e preciso.
Ed è esattamente questo che, negli ultimi tre episodi, è venuto a mancare.

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Il primo è Striking Vipers, storia di due vecchi amici che, nel provare un futuristico videogioco picchiaduro a immersione totale (cinque sensi compresi), lasciano presto perdere cazzotti e calci per iniziare ad accoppiarsi selvaggiamente, uno nei panni di un guerriero asiatico, l’altro in quelli di una gagliarda combattente in gonnella.
L’elemento migliore dell’episodio, a conti fatti, è proprio la messa in scena del combattimento, che stuzzica la fantasia dei videogiocatori di vecchia data. Per il resto, abbastanza un disastro. Di fatto assistiamo a una storia d’amore, e l’elemento “black mirror” dovrebbe essere legato alla capacità di spersonalizzazione e reinvenzione dell’identità propria delle tecnologie del futuro (e un po’ del presente). E in effetti una scena degna di nota è quella in cui i due amici, dal vivo, provano a ricreare una tensione sessuale che finora avevano sperimentato solo nella realtà virtuale del gioco, scoprendo le differenze istintive fra l’una e l’altra.

Il problema, però, è che rimane tutto in superficie. Ci sono molte questioni in ballo in una trama del genere, che riguardano la tecnologia, certo, ma anche l’identità di genere, e la possibilità che il futuro ci permetta sperimentazioni più ardite della nostra personale percezione di sé. Niente di tutto questo, però, è veramente toccato, e si rimane a parlare di una scappatella virtuale in cui il senso di dipendenza di uno dei due amici appare più forzato che altro, fino a una risoluzione un po’ stucchevole in cui, di fatto, si presentano i vantaggi della poligamia. Va bene eh, per carità, tarallucci e vino, però insomma, siamo su Black Mirror o no?
E a mio giudizio ci voleva poco per fare qualcosa di meglio: bastava allargare lo sguardo, coinvolgendo un’intera generazione capace di modificare sensibilmente la propria sessualità ed emotività sulla base di stimoli artificiali, spostando in territori inesplorati il confine fra la realtà dei sentimenti e la finzione della loro genesi. E invece no, due amici, qualche scopata, e poi un bel chiarimento con la moglie. Vabbè.

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Proseguiamo con Smithereens che, in linea di principio e in assoluto, è una buona ora di intrattenimento, ma con Black Mirror c’entra relativamente poco.
La storia è quella di un uomo che, dopo aver perso la moglie in un incidente di cui si sente responsabile perché era distratto dal cellulare, rapisce il giovane stagista di un social network simil-Facebook con lo scopo di arrivare a parlare con il simil-Zuckerberg della situazione.
E niente, tutto qui. L’episodio è ambientato per buona parte nella macchina del rapitore (interpretato da un sempre ottimo Andrew Scott), e indubbiamente costruisce una buona tensione. Il problema è che di thriller ambientati in spazi angusti ne abbiamo già visti tanti, come abbiamo visto tanti rapitori, tanti ostaggi e tanti negoziatori. Dov’è il twist alla Black Mirror? Boh. Chiaro che si parte dai social, e nel corso della puntata grande parte dell’indagine viene condotta tramite l’attività passata del protagonisti su Smithereens, ma non c’è praticamente nulla che non possa essere trovato in qualunque poliziesco minimamente al passo coi tempi.
Anche la risoluzione è fiacca, perché di fatto il rapitore voleva solo parlare con il capoccia della piattaforma e raccontargli la sua storia, e in tutto questo c’è ben poco di sorprendente. Un episodio, insomma, che intrattiene ma non colpisce in alcun modo, e per Black Mirror questo è un problema serio.

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E arriviamo così all’ultima puntata stagionale, Rachel, Jack e Ashley Too, che da una parte è quella un pochino più ricca di spunti fantascientifici, ma allo stesso tempo è un dannato pasticcio.
Protagonista è Miley Cyrus, nei panni di una cantante super colorata e super positiva che manda messaggi edificanti alle ragazzine pur covando dentro di sé una vena oscura e ribelle. Accanto a lei ci sono due sorelle, una delle quali super-fan della cantante suddetta, tanto da comprare avidamente una speciale bambola in cui è stata inserita un’intelligenza artificiale molto sofisticata, ricalcata sulla personalità della prorompente Ashely.
Ancora una volta, un po’ come Striking Viper, ma all’ennesima potenza, è un episodio che accumula una gran quantità di spunti, che però tratta in modo molto disordinato, senza approfondirne davvero nessuno: c’è una bambola intelligente che diventa amica “vera” di una ragazzina, e che alla fine si scopre essere stata perfino “depotenziata”, anzi trattenuta, perché altrimenti il calco della mente di Ashley l’avrebbe trasformata in un pupazzo incazzoso e scurrile; poi c’è una zia cattiva che manda Ahsley in coma solo per poter continuare a succhiare dal suo cervello nuove canzoni poppeggianti con cui instupidire le ragazzine; poi ci sono ologrammi enormi con cui continuare a tenere sul palco una tizia che è dichiaramente mezza morta.
Ognuno di questi tre elementi, da solo, avrebbe potuto essere l’anima di una puntata di Black Mirror, perché si porta dietro temi grossi e sempre caldissimi relativi alle relazioni fra singole persone, al modo di trattare la morte, alle multiformi connessioni fra star e pubblico.
Senza contare il tema più vasto e potenzialmente ricchissimo del dialogo fra i famosi (guidati a loro volta dal marketing) e i loro seguaci, che possono essere traviati anche quando i messaggi messi in campo sono teoricamente positivi e incoraggianti.

Insomma, tanta carne messa su un fuoco che però, alla fine, non riesce a cuocere tutto, ma che soprattutto, ancora una volta, finisce col mandare un po’ tutto in vacca.
Non so se è per la composizione giovane del cast, o se per il fatto che Miley Cyrus, a parte la fase “cazzi gonfiabili”, ci ricorda ancora Hannah Montana, fatto sta che un episodio sulla carta super inquietante diventa presto un’avventurella fra adolescenti, un teen movie in cui la spalla comica è una bambola che dice parolacce.
E dire che, per esempio, quando la giovane Rachel si trova a partecipare al talent organizzato dalla scuola, facendo una figura pessima, si comincia a sentire il peso di qualcosa di importante, di un discorso che si potrebbe fare su quanto certi messaggi positivi (alla “credi in te stesso, puoi fare tutto”, ecc) possano diventare controproducenti quando impediscono di prepararsi alla sconfitta. Ancora una volta, però, è un fuoco di paglia che Rachel dimentica quasi subito, impegnata com’è a organizzare improbabili raid nella casa di Ashley per salvarla dalla zia cattiva.

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Insomma, il problema l’avete capito. Non è tanto che la quinta stagione di Black Mirror sia povera di spunti (per quanto un episodio su tre, il secondo, non ne abbia di particolarmente validi). La questione è che Charlie Brooker, a questo giro, non ci è parso in grado di sondarli con il consueto rigore, preferendo buttare un po’ di idee nel calderone, rimestando con troppa foga fino a far uscire un po’ di intrattenimento fin troppo superficiale, per lo meno rispetto a quello cui eravamo abituati.
Alla fine di questi tre episodi la tecnologia non ci fa più paura di prima, né ci sono rimaste in testa immagini o situazioni particolari. Ci sono passate via così, divertendoci qui e là, ma senza lasciare grande segno, che fosse paura o speranza, inquietudine o sentimento.
E che Black Mirror “passi” senza lasciare traccia, beh, è proprio una brutta notizia.



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