4 Gennaio 2020 9 commenti

Messiah: Netflix apre l’anno con una serie nella media di Marco Villa

Cosa succederebbe se comparisse dal nulla un uomo che si proclama Messia e viene seguito da migliaia di seguaci? Se lo chiede Messiah

Copertina, Pilot

La domanda non è inedita: cosa succederebbe se un nuovo Gesù Cristo iniziasse a predicare ai nostri giorni? Facile che venga preso per un pazzo, se non peggio. Messiah affronta proprio questo “peggio”, descrivendo la reazione del mondo diplomatico quando un uomo con i capelli lunghi e il tono da profeta si definisce figlio di dio e guida 2000 profughi palestinesi attraverso il deserto siriano. Obiettivo: raggiungere il confine con Israele per poi riportarli nella loro terra. Un’idea che fa suonare gli allarmi delle intelligence di tutto il mondo, convinte che l’autoproclamato messia non sia altro che un nuovo leader terrorista in ascesa e con un preoccupante ascendente sulle persone, al di là della loro fazione di appartenenza.

Pubblicata da Netflix in un giorno a suo modo simbolico come il primo gennaio, Messiah è una serie in dieci episodi creata da Michael Petroni e diretta da James McTeigue (regista tra gli altri di V per Vendetta e storico collaboratore delle Wachowski) e Kate Woods (una lunga carriera principalmente come regista di procedurali). Il trio è australiano, ma la serie è ambientata in Medio Oriente, dove plana ben presto anche la protagonista femminile, ovvero l’agente della CIA Eva Geller, interpretata da Michelle Monaghan. È lei la prima a preoccuparsi di quanto sta accadendo tra Siria e Israele e a convincere i suoi capi a mandarla in missione per tenere d’occhio la faccenda. 

Sul campo trova Aviram Dahan (Tomer Sisley), suo omologo israeliano che ha già iniziato a interrogare il soggetto in questione e soprattutto ha già iniziato a farsi mettere in crisi dalle risposte dell’interrogato. Già, l’interrogato. Interpretato dal belga Mehdi Dehbi, il Messia non ha nome, né un passato. Capelli lunghi, jeans, sneaker e felpa con cappuccio, si presenta come figlio di dio e incarnazione della Parola con la p maiuscola e soprattutto dimostra di sapere tutto di Aviram e del suo passato. 

Di base, Messiah è una serie nel mondo intelligence, con l’aggiunta di un livello di mistero dato dalle domande che ci si pone sulla natura del Messia. Lo spunto è molto interessante, il risultato un po’ meno: Messiah è godibile e non stanca, ma non svetta per qualità. I dialoghi sono spesso piatti, con punte verso il basso (la madre che dice al padre assente: “Spezzerai di nuovo il cuore di tua figlia?”) e questo anche senza voler considerare le battute del Messia, chiaramente votate a un linguaggio profetico da cui è difficile pensare di discostarsi.

Da questa difficoltà di scrittura deriva anche una Michelle Monaghan che pare fuori contesto, anche per l’inevitabile confronto che viene alla mente, cioè quello con Claire Danes e la sua Carrie Mathison di Homeland, interprete, personaggio e serie che giocano in tutt’altro campionato. L’impressione che non si tratti di un prodotto-vetrina di Netflix è confermata poi da un gioco al risparmio sulle scenografie, con ricostruzioni che sanno di cartonato e interni da soap opera a bassissimo costo.

Elementi in qualche modo secondari, ma fondamentali nel trasformare una serie come tante in una da consigliare senza indugio. Ecco, se questo deve essere il discrimine, Messiah non si stacca dalla prima posizione.

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