23 Settembre 2014 12 commenti

1994-2014: vent’anni di Friends di Diego Castelli

Il doveroso tributo nel ventennale della nostra sitcom preferita

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SE VOLETE LEGGERE LE GUSTOSE RECENSIONI AMERICANE DI FRIENDS (QUELLE APPENA DOPO IL PILOT) LE TROVATE A QUESTO LINK.
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Sono giorni di ricorrenze. Ieri c’era da commemorare il decennale del primo episodio di Lost, e oggi siamo qui a scavare ancora di più nella memoria, per parlare dei venti anni di Friends (che cadevano sempre ieri, 22 settembre 2014).

Se ben ricordo, non abbiamo mai scritto un vero e proprio articolo su Rachel e compagni, forse perché, quando la serie è finita, Serial Minds non esisteva nemmeno come concetto, e all’epoca il cognome “Villa” era solo quello di mia madre.
Ora invece siamo qui, e sento un po’ la pressione. Non perché questo articolo abbia chissà quale importanza nell’equilibrio dell’universo, ma semplicemente perché Friends è la risposta che do di slancio quando mi fanno la fatidica domanda: “Qual è la tua serie preferita?”
La mia serie tv preferita è Friends. Era così dieci anni fa ed è così adesso, nonostante tutto quello che c’è stato in mezzo. E dubito che la situazione possa cambiare, perché ciò che la rende così speciale ai miei occhi ha ben poco a che vedere con la critica televisiva, lo studio della narrativa, o l’esperienza da blogger. Ha a che fare, invece, con il me ragazzino, con il vecchio televisore pre-HD di mamma e papà, con la guida tv su cui andavo a leggere le trame prima di diventare un attivista anti-spoiler. Ha a che fare col liceo in cui commentavamo le puntate, con le videocassette su cui le registravo se non ero a casa, con un tempo senza internet in cui per mesi facevamo fatica a sapere se, dopo un finale particolarmente appeso, ci sarebbe stata o no un’altra stagione. Ha a che fare, insomma, con cose che non ci sono più, e che non potranno mai tornare. Quindi, caro Walter White, ci hai provato, ma il mio cuore di spettatore appartiene a Chandler Bing.
Ballo

La domanda da farsi, vent’anni dopo, è abbastanza banale: perché Friends è così famosa? E il tempo presente della frase è voluto: Friends è tuttora una delle serie più amate del mondo, e per rendersene conto basta un piccolo, sorprendente dato statistico che una guida turistica mi diede un paio di anni fa, quando a Los Angeles ero andato a visitare gli studi della Warner. Con la loro parte dei diritti di vendita relativi a repliche televisive, dvd, tazze, magliette, penne, sottobicchieri e merchandising vario, i sei protagonisti di Friends portano tuttora a casa 24-25 milioni di dollari all’anno, a testa. Se consideriamo quanto l’industria televisiva ami ormai macinare a ritmo continuo i propri miti per proporne sempre di nuovi, è un risultato abbastanza clamoroso.

Nei primissimi giorni dopo la sua nascita, le potenzialità di Friends non vennero immediatamente percepite (a questo proposito leggetevi l’altro post di giornata, dedicato alle recensioni post-pilot). I dati di ascolto non furono subito devastanti – all’epoca la sitcom regina era ancora Seinfeld – e il concept della serie non sembrava così rivoluzionario da giustificare chissà quale botto. In fondo erano sei amici che facevano battute in un caffè.
Se è vero che nessun prodotto culturale più diventare così famoso senza un minimo di fortuna – che può essere la collocazione in palinsesto, il rifiuto di un possibile protagonista che in realtà sarebbe stato meno efficace, e mille altri dettagli imponderabili – a distanza di poco si capì che, in realtà, qualcosa di rivoluzionario Friends ce l’aveva.
Forse per la prima volta, le sitcom americane cominciavano a rivolgersi con forza ai ventenni, raccontando ciò che ai ventenni interessava: l’amicizia (prima ancora della famiglia), le difficoltà nel cercare un lavoro, i primi amori “veri”, le incognite sul futuro.
Fino a quel momento, la stragrande maggioranza delle comedy statunitensi poggiava sulle famiglie: famiglie già formate, di cui si raccontavano le peripezie quotidiane lasciando quasi sempre ai genitori il ruolo di protagonisti. Poco o nulla veniva detto di “come” quelle famiglie si erano formate, di come avevano fatto gli adulti protagonisti a… diventare adulti.
Gli autori di Friends, invece, tolsero quasi completamente i genitori dall’equazione, prendendo i “figli” e lanciandoli senza rete di protezione a New York, la città universalmente riconosciuta come più caotica e insieme più affascinante del mondo.
In un efficacissimo miscuglio di realismo (del contesto) e fiaba (degli sviluppi), Friends diventava specchio di una generazione che finalmente poteva relazionarsi con dei personaggi a cui somigliare fin da subito, non tra vent’anni.
Friends season 10

E’ un aspetto che emerge spessissimo nella serie, i cui protagonisti sono alla ricerca costante di una qualche stabilità, pur non avendo idea, per gran parte del tempo, di cosa quella stabilità significhi. Un’indeterminatezza tipica dei vent’anni (e oggi spesso pure dei trenta) con cui un certo pubblico poteva relazionarsi facilmente, trovando conforto e comprensione in una storia che, in superficie, aveva comunque i caratteri della grande semplicità e leggerezza.
Un pubblico che, una volta catturato, diventò a sua volta un preziosissimo volano: i giovani spettatori, molto più dei vecchi delle vecchie sitcom, trasformarono Friends in un fenomeno di costume, una moda nel senso più lusinghiero del termine, un tema di conversazione e adorazione che andò ben oltre il concetto di serie tv, investendo spazi della vita anche inaspettati: le ragazze chiedevano di avere i capelli come quelli di Rachel, e diversi studi hanno dimostrato che certe abitudini linguistiche dei protagonisti sono entrate nel linguaggio comune in maniera così profonda da essere riscontrabili nei teenager di oggi, quelli che magari Friends non l’hanno mai vista.

A questi elementi strutturali e di marketing, ovviamente, bisogna aggiungere che Friends era prima di tutto un’ottima sitcom. Una sitcom scritta benissimo, dalla comicità semplice, fresca e mai volgare, interpretata da uno dei migliori cast che si siano mai visti nella storia della televisione. Tutti attori e attrici di scarsa fama (chi più chi meno), che riuscirono a cucirsi addosso sei personaggi “perfetti”, i cui punti di forza e di debolezza erano costantemente esaltati (o mitigati) dalla presenza degli altri, in un equilibrio che – al contrario di quello che avviene nella maggior parte dei casi – teneva tutti allo stesso livello. Al di là delle preferenze personali, da un punto di vista della scrittura non c’era un personaggio, in Friends, che mettesse in ombra gli altri cinque, o che reggesse da solo le sorti dello show, così come non c’erano quasi mai episodi monotematici che costringessero il fan di Joey ad annoiarsi perché la puntata in onda era totalmente incentrata su Rachel. Con Friends tutti erano allo stesso livello, e contemporaneamente erano tutti diversi, tutti presi dalle loro singole storie e dai loro singoli sviluppi, ognuno dei quali intersecato con quelli degli altri. Un’amicizia “narrativa”, insomma, che faceva da perfetto parallelo a quella “umana”.
E poi, giusto per sottolineare ulteriormente la quantità di dettagli azzeccati, la mitica canzone della sigla era un tormentone immediato.

Eppure manca ancora qualcosa.
Ok, una sitcom scritta molto bene, con ottimi attori, capace di trattare con apparente indifferenza argomenti che la sitcom americana, in realtà, non aveva quasi mai trattato.
Bene, benissimo, mi torna tutto.
Ma allora perché piaceva così tanto anche a me, quindicenne italiano che con quei temi aveva poco da spartire, e che quei ritmi e quella recitazione li coglieva solo parzialmente, dovendo fare i conti col doppiaggio?
(Apro parentesi. Se siete amanti di Friends ma non l’avete mai vista in inglese, fatelo. Poi tornate qui e ringraziatemi come meglio preferite.)
E perché piace anche ai giovani che vi si accostano oggi, in un mondo completamente cambiato?
C’è da dire che Friends rimase sempre abbastanza generica, nei suoi temi di fondo, così da renderli compatibili con più epoche e più luoghi: che tu sia un ragazzino italiano o un trentenne del Vermont, questioni come il lavoro da trovare, o la ragazza a lungo agognata da conquistare, sono problemi con cui è comunque facile entrare in contatto.
Proprio la componente romantica rimane una delle più importanti: raramente le sitcom riescono (e riuscivano) a farti così ridere dando contemporaneamente tanto pathos a una storia d’amore tra i protagonisti. Invece Ross e Rachel prima, e poi anche Monica e Chandler, riuscirono a essere sempre pienamente divertenti, ma anche a farci penare come se stessimo guardando la più ruffiana delle soap opera. Forse perché, a differenza di molti personaggi comici di oggi, quelli di Friends non era mai completamente “idioti”, e quelli in questo senso più sbilanciati (Joey e Phoebe) sono anche quelli a cui è stato dato meno spazio romantico nel corso della serie.
Kiss

Ma il motivo va ancora oltre, e non pensiate che stia per farvi una Grande Rivelazione. La Grande Rivelazione non c’è, e quella di Friends rimane un’alchimia così perfetta da essere difficile da comprendere e da descrivere nelle sue più intime parti. Chi l’ha vissuta la conosce perfettamente, ma fatica a trasmetterla a parole.
C’è però un’ultima riflessione, che c’entra qualcosa con il carattere aspirazionale della serie. Intendiamoci, un po’ tutte le comedy sono aspirazionali, nel senso che tutti vorremmo vivere in una sitcom, dove c’è sempre da divertirsi e dove i problemi non sono mai realmente insormontabili.
Ma Friends fece qualcosa di più. Friends riuscì a farci provare il desiderio di essere con loro, e insieme di essere loro. Non solo, ci diede la speranza di poterlo effettivamente essere.
Nel suo equilibrio di realismo e fiabesco, Friends ci dava l’impressione di essere in un mondo di sogno, ma non così distante dalla nostra portata. Non posso essere un Barney Stinson, e non posso (e non voglio) essere uno Sheldon Cooper. Ma in qualche modo credevo di poter essere un Chandler.
Al contrario di molti altri personaggi, che magari amiamo alla follia ma che sappiamo non esistere, Rachel, Ross, Chandler, Monica, Joey e Phoebe esistono, sono persone. Sono ancora da qualche parte a Manhattan a bere caffè, e contemporaneamente sono qui, in un gesto che facciamo o in un’espressione che usiamo.
Alla fine, forse, il vero salto concettuale sta già nel titolo, un titolo che ci ha sempre tratto in inganno.
Forse “Friends”, “amici”, non fa riferimento alla relazione che i personaggi intrattenevano fra di loro, in un mondo che potevamo solo osservare. Riguarda la relazione che hanno con noi. Non sono personaggi che abbiamo guardato, sono amici con cui abbiamo vissuto. E potranno passarne cinquanta, di anni, ma la nostra amicizia con loro non finirà mai. Come se potessero rispondere in ogni momento a una nostra telefonata. Come se ogni giorno potessimo incontrarli, per caso, entrando in un qualunque Central Perk.
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