14 Ottobre 2013 8 commenti

Glee – L’episodio-tributo a Cory Monteith è stato una monnezza di Diego Castelli

Ci si indigna. Ah, se ci si indigna!

Copertina, On Air

Glee - Puntata per Cory

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Diciamolo subito, senza giri di parole. La tanto attesa puntata-tributo di Glee dedicata a Cory Monteith è una roba abbastanza inguardabile.
Ma come? Non è triste, struggente, commovente, toccante, malinconica e puccettosa?
No, non lo è. Oh meglio, ci prova, superando però un confine che andava preservato.

Tengo a precisare che questa analisi prescinde quasi completamente dal giudizio complessivo su Glee. Ormai sapete bene quando il mio rapporto con la serie sia cambiato nel corso degli anni, dall’entusiasmo di una prima stagione fresca e “nuova”, ad annate frustrate da ripetizioni e banalità.
Ma qui dobbiamo fare un altro tipo di discorso. Qui non abbiamo il solito episodio con cui Glee ricorda un grande artista scomparso più o meno recentemente, una figura di spicco che è “esterna” tanto alla produzione dello show quanto ai personaggi che lo animano. Stavolta c’è da trattare la morte di un protagonista, uno che era “interno” alla produzione e alla narrazione, quindi le normali Glee - Puntata per Cory2prospettive di analisi devono essere almeno in parte ricalibrate.

Sono state fatte alcune scelte di fondo, nel trattare l’evento, che di per sé sono legittime: in primo luogo è stato deciso di far morire anche il personaggio interpretato da Monteith (scelta forse inevitabile), e poi di organizzare un episodio che non specificasse le cause della morte e non mostrasse nemmeno il funerale, passando direttamente al tributo, alla memoria e al cordoglio.
Fin qui ok, ci può stare.
Poi si entra in un terreno che, per forza di cose, è più scivoloso. La messa in scena della morte di un personaggio impone le stesse modalità produttive di una qualunque altra puntata, con attori che recitano allo scattare del ciak, registi che orchestrano le inquadrature e il montaggio per ottenere un certo tipo di effetto sullo spettatore, ecc. Nel momento in cui la morte del personaggio coincide con quella dell’attore (peraltro di un protagonista che è presente nella serie fin dal primo episodio), il corto circuito tra realtà e finzione rischia di diventare troppo forte, aumentando una sgradevole sensazione di posticcio. In pratica gli stessi attori che si dicevano sconvolti per la morte di Monteith, ora recitano quello stesso dolore.

E’ un processo molto delicato, ma in qualche modo messo in conto nel momento stesso in cui si decide di fare il tributo. La responsabilità del prodotto finale sta allora negli sceneggiatori e nel regista, e nella loro sensibilità nel trattare un tema così spinoso.
In questo senso, si poteva fare meglio. La puntata è fin troppo lacrimevole, e le pur gradite deviazioni di Sue Sylvester non cambiano un’impostazione di fondo che in larghissima parte è basata sul pianto e sulla disperazione. Ce ne sono i motivi, evidentemente, ma sono numerose le occasioni in cui si sente stridere quel corto circuito di cui parlavamo prima. In aggiunta, il fatto che l’episodio sia di una banalità assoluta – nella scelta dei pezzi musicali, negli snodi narrativi e nelle coreografie – non aiuta a spostare l’attenzione dal fatto che è tutto un pianto.

Fino ad ora, comunque, siamo nell’ambito dell’accettabilità. Non è una gran puntata, si piange un po’ troppo e il livello di finzione rischia di essere troppo palese ma, se tributo si vuol fare, bisogna sapere quali sono i rischi. Peraltro non è la prima volta che una serie tv dedica uno o più episodi all’omaggio verso un personaggio-attore venuto a mancare: i primi esempi che vengono alla mente sono quelli di John Spencer in The West Wing e John Ritter in 8 semplici regole, casi analoghi in cui però il trattamento della materia mi pareva più misurato.
Purtroppo, però, arriva un momento in cui queste sfumature in larga parte soggettive lasciano il posto a una caduta di stile francamente inaccettabile, e mi riferisco alla comparsa di Lea Michele.
Lea Michele non doveva fare parte di questo episodio. Il motivo è semplice: mentre gli altri membri del cast di Glee vanno intesi come “colleghi”, al massimo “amici”, Lea Michele era la futura moglie di Cory Monteith: nel momento in cui la vediamo piangere a catinelle, rivolgendo il suo cordoglio non a Cory, bensì a Finn Hudson, quel famoso limite tra realtà e finzione viene completamente stracciato, creando una voragine di cattivo gusto. La promessa sposa del morto, una che stava per diventare la sua famiglia, una che doveva passare la vita con lui (ben diverso che recitare insieme per qualche anno e poi ognuno per i fatti suoi) non può recitare il suo stesso dolore, riferendosi però a un personaggio di fantasia.
E’ un po’ come se io morissi e il Villa mettesse in scena una web-series sulla mia vita. Lo può fare, magari gli viene anche bene, ma di certo per interpretare mia madre non sceglierebbe… mia madre, Glee - Puntata per Cory3così che la povera donna sia costretta a piangere per finta un figlio che ha pianto anche nella realtà. E’ una roba che semplicemente mette i brividi.

La colpa di questa caduta di stile è soprattutto di Ryan Murphy. L’autore aveva dichiarato che avrebbe lasciato scegliere alla Michele se partecipare, se fare il tributo, se sospendere la serie per qualche mese ecc. Ma questo non basta: stiamo parlando di una ragazza ancora molto giovane che vive in un mondo assai particolare. E stiamo parlando di un attore altrettanto giovane che è morto avendo alle spalle un solo personaggio importante, che quindi stabilisce con lui un’identificazione maggiore rispetto ad attori più navigati che hanno partecipato a mille produzioni diverse.
E’ l’autore-produttore, in questo caso, che deve rendersi conto del confine da non oltrepassare, pena una spettacolarizzazione del dolore che va ben oltre il semplice tributo, trasformandosi nello sfruttamento di una pena reale in nome del palinsesto e dell’ascolto.
Molto meglio sarebbe stato lasciare fuori Lea Michele, per lo meno fingere che se ne stesse a casa sua a piangere il futuro marito, senza andare sul set a piangere per finta il personaggio da lui interpretato.
Sarebbe bastato questo per rendere l’episodio, se non certo memorabile, per lo meno vagamente dignitoso. Così invece si è svaccato, e il risultato è abbastanza desolante.

 



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