13 Settembre 2016 2 commenti

Better Things: Pamela Adlon si mette in proprio, con l’aiuto di Louis C.K. di Diego Castelli

L’ex Marcy di Californication racconta Hollywood dal punto di vista femminile

Copertina, Pilot

Better Things (1)

Ormai il meccanismo lo conosciamo: un comico più o meno famoso, magari conosciuto per interpretazioni stupidone o volgari, decide di “mettersi” in proprio per creare uno show più personale e, guardacaso, molto più intelligente di quello che avremmo immaginato basandoci solo sui suoi lavori precedenti.
Con i dovuti distinguo e le varie sfumature, è quello che è successo con Louis C.K. e il suo Louie, con Aziz Ansari e Master of None, con Donald Glover e il suo recentissimo Atlanta. A questi andrebbero aggiunti anche quelli che non ce l’hanno fatta, come John Mulaney.
Ovviamente, essendo un andazzo che va avanti ormai da tempo, lo spazio per la sorpresa del pubblico è diminuito. Anzi, ora siamo pure meno indulgenti: dopo aver visto Louie, pretendiamo che ogni nuovo one man show seriale sia ugualmente profondo e stimolante.

Ecco perché il compito di Pamela Adlon era simile eppure più difficile di quello dei suoi colleghi: perché è arrivata dopo e, pur avendo forse qualcosa di buono da dire, deve farsi sentire sopra un rumore diventato sempre più assordante.
Su una cosa però Pamela può stare tranquilla: qui a Serial Minds saremo sempre suoi amici, lo siamo dai tempi di Californication, e non riusciremo mai a dimenticare la spumeggiante e sboccatissima Marcy Runkle.
Prima e dopo Californication la Adlon ha fatto un sacco di altre cose, fra cui la doppiatrice premiata con Emmy, ed è passata anche dalle parti di Louie, in cui ha recitato e a cui ha lavorato dietro le quinte proprio con l’amico Louis CK, che ora le ha ricambiato il favore.

Better Things (4)

Better Things, in onda su FX dallo scorso 8 settembre, è il primo tentativo di Pamela di avere uno show pienamente suo, sullo schermo e dietro la telecamera. E proprio Louis C.K. è cocreatore della serie, co-sceneggiatore nonché regista del pilot, dove però non compare per lasciare spazio alla collega e amica.
Better Things, in questo senso proprio come Louie, è un racconto molto autobiografico, in cui la Adlon interpreta un’attrice e doppiatrice che cerca di coniugare il desiderio di sfondare a Hollywood con le necessità e gli obblighi di una madre single di tre figlie.
Nonostante le difficoltà di contesto di cui parlavamo prima, l’inizio di Better Things è incoraggiante: ci troviamo nuovamente di fronte a una comedy-fino-a-un-certo-punto, un racconto agrodolce in cui la comicità non è tanto il punto di arrivo dell’azione narrativa, lo scopo ultimo dell’agire dei personaggi, quanto piuttosto un meccanismo di difesa, un prendere le cose con filosofia da parte di un personaggio che altrimenti avrebbe diritto a bestemmiare dall’inizio alla fine.
Le figlie di Sam, la protagonista, sono odiose, tre diverse declinazioni dello stereotipo della figlia cagacazzo: la più piccola capace di piangere per ore per un capriccio; la più grande pronta a lamentarsi di qualunque sillaba pronunciata dalla madre; quella di mezzo, vagamente lesbo-androgina, presa da idee gagliardissime come quella di farsi togliere il clitoride per protesta nei confronti delle donne africane vittima di infibulazione.
Il quadretto famigliare, dunque, è abbastanza intricato, e Sam deve farci i conti tentando nel contempo di portare a casa i soldi per mangiare, fra doppiaggi di cartoni inutili, provini altrettanto inutili perché tanto la parte la danno a Julie Bowen (prima e non unica guest star del pilot), e produzioni di dubbio gusto in cui contano più le acrobazie nelle scene di sesso rispetto alla storia raccontata.

Better Things (2)

Se il mondo di Sam è difficile ai limiti dell’isteria, la Adlon dona alla sua protagonista una gran forza d’animo e un certo pragmatismo, che le consentono di far fronte alle avversità cavando quello che può dal fondo del suo sarcasmo o dalle braccia di un saltuario compagno di letto. Una storia femminile e al femminile – forse l’elemento più nuovo nella selva di show maschio-centrici di questi anni – che Louis C.K. co-scrive e dirige mettendoci dentro alcuni suoi marchi di fabbrica ma lasciando giustamente il fuoco sempre sulla Adlon e la sua performance.
Il risultato, proprio in virtù delle strutture e delle dinamiche che abbiamo conosciuto in questi anni, non può essere “strabiliante”, nel senso che non ci lascia con l’idea di aver visto qualcosa di incredibilmente nuovo. Allo stesso tempo, l’affetto per Sam è immediato e duraturo, proprio perché la scelta di esagerare certi passaggi e caratteri (come le figlie) è funzionale all’empatia fra la protagonista e il pubblico, che riconosce in lei un suo possibile doppio “normale” in un mondo, quello di Hollywood, che di solito normale non è, o per lo meno non vuole sembrare.

Perché seguire Better Things: perché la Adlon è brava e perché la firma sua e di Louis C.K. si vede e funziona.
Perché mollare Better Things: perché a questo punto è l’ennesimo show comico-autobiografico, e non c’è più l’effetto sorpresa cpme qualche anno fa.



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