Dying for Sex – Michelle Williams fra il piccante e il commovente di Diego Castelli
L’ex stella di Dawson’s Creek torna in tv per la più classica delle miniserie che fanno ridere ma anche riflettere
Se ci sono due temi che solitamente vengono tenuti ben distinti, come se solo accostarli fosse un tabù schizzinoso che non vorremmo mai vedere rappresentato su uno schermo o letto su una pagina, sono il sesso e la malattia (a meno che, naturalmente, non si parli di malattie sessualmente trasmissibili).
Già solo questo rende Dying for Sex, serie di Hulu prodotta da FX e disponibile in Italia su Disney+, una serie degna di un minimo di attenzione, per capire come si possa riuscire a toccare una materia così delicata provando pure a fare ridere, fin da un titolo che gioca con le parole per raccontare di una persona che il sesso lo desidera “da morire”, ma che sta pure morendo effettivamente.
E l’altro motivo per drizzare le antenne ancora prima di vedere la prima scena, è naturalmente la presenza di Michelle Williams, che noi anziani portiamo ancora nel cuore dai tempi di Dawson’s Creek e che nei venticinque anni passati da allora si è costruita una solidissima carriera cinematografica condita da cinque nomination agli Oscar, e interrotta da due soli ritorni sul piccolo schermo: uno era Fosse/Verdon nel 2019, l’altro, per l’appunto, Dying for Sex.

Sceneggiata da Elizabeth Meriwether (già madre di New Girl) e tratta da un podcast di successo di Nikki Boyer, che riportava la storia vera di una sua amica, Dying for Sex racconta di Molly (Williams), donna come tante, sposata con l’apprensivo Steve (Jay Duplass) e sopravvissuta a un cancro al seno che ha reso necessarie cure lunghe e invasive.
Purtroppo, quando ormai pensava di esserne uscita, Molly scopre che il tumore è tornato più aggressivo di prima, di fatto condannandola a una morte non troppo lontana.
La notizia getta Molly nello sconforto, ma fa anche scattare in lei qualcosa di inaspettato: di fronte all’inevitabile, e sostenuta dall’amica Nikki (quella del podcast, interpretata da Jenny Slate), Molly decide di lasciare il marito con cui era già in crisi e che la vede solo come una paziente da accudire, per cercare quella soddisfazione sessuale che in vita sua non ha mai avuto.
Inizia dunque un percorso di sperimentazione in cui Molly esplora la propria sessualità, i propri desideri e fantasie, incontrando persone bizzarre ma di buon cuore che l’accompagnano in un ultimo tratto di vita in cui può succedere di tutto, purché non sia “sprecato”.

Dying for Sex è una bella serie. Ma forse non nel senso che solitamente descriviamo qui, quando elogiamo prodotti costruiti con grande perizia tecnica e certosina precisione di scrittura, quelle specie di mosaici dove tutto si incastra alla perfezione, tutto ha un senso, niente è lasciato al caso.
Dying for Sex, già a partire dal concept, ha una natura leggermente più aneddotica, accumula piccoli episodi divertenti dell’esplorazione di Molly (dalle gite nei locali di scambisti al tizio che vuole vestirsi da cane e trattarla da padrona), e vuole tenere insieme una gran varietà di temi, buttando al fuoco una quantità di carne tale da rendere poi difficile gestirla tutta con uguale raffinatezza.
Da qui, per esempio, la sparizione forse troppo repentina di un personaggio molto importante verso la fine della storia, e altri piccoli dettagli presi e lasciati indietro, forse seguendo la via di una storia vera che effettivamente, per amore di cronaca e rispetto delle persone coinvolte, aveva effettivamente bisogno di una certa aderenza alla realtà (e la realtà, si sa, non è una sceneggiatura e procede per strappi improvvisi).

Eppure, Dying for Sex ha una grande forza. Nasce da un’idea che le consente di essere piccante e divertente, ma non può e non vuole dimenticare l’elemento più tragico della vicenda, trovando però il modo di metterlo sotto una luce di vita e comprensione.
Il percorso di Molly non è un tentativo di dimenticare un destino infausto, seppur temporaneamente, bensì quello di arrivare a una conoscenza più profonda di sé, che finora era mancata.
Interessante è già solo l’inizio, dove la crisi di Molly col marito nasce da un eccesso di accudimento di lui, che coltiva la soddisfazione di sé in un ruolo certamente importante, ma che non è sempre compatibile con l’idea di un marito.
Eppure, per quanto sia facile immedesimarsi nella frustrazione di Molly, Steve non è una persona “cattiva”, un dettaglio che rende più difficile il distacco di lei, ma che permette a noi di cogliere con più precisione la sua necessità: il tema non è che Steve sia un cattivo marito in generale, ma è ormai inadatto a stare accanto a una persona che ha bisogno di altro negli ultimissimi anni della sua vita.

Vedete quindi come Dying for Sex tiri dentro una marea di temi diversi: c’è l’influenza della malattia sul matrimonio; c’è una riflessione sulla libertà sessuale e sui mille paletti che ancora culturamente ci poniamo sulla strada della scoperta del piacere; ci sono molte scene dedicate all’argomento non banale dei modi in cui la malattia viene comunicata, spiegata, gestita nelle strutture ospedaliere (non a caso la serie contempla molte figure diverse fra medici, psicologici, infermieri ecc); c’è ovviamente il tema della gestione pratica ma soprattutto psicologica della malattia, qui nei termini di un equilibrio difficile fra il desiderio di non lasciarsi andare all’inevitabile, e la necessità che con quell’inevitabile, prima o poi, ci si faccia i conti.
E poi, sopra tutti, c’è un grande racconto amicizia, con Nikki tanto disorganizzata e incasinata quanto desiderosa di dare a Molly un supporto che sia vero, sincero, lontanissimo da frasi fatte e comportamenti di circostanza.
Di fatto, Molly sceglie Nikki per i suoi ultimi mesi di vita perché Nikki riesce a rimanere sua amica come è sempre stata, al contrario del marito che ha smesso di essere un marito per diventare un badante.

Per chi guarda, quello di Molly è un contemporaneamente un viaggio verso la morte e verso la vita. Come detto, non tutto torna sempre alla perfezione, e il confine con la retorica è sempre pericolosamente vicino, ma in Dying for Sex si ride spesso e volentieri, ci si commuove tanto quanto, e la sua verve da Sex and the City ospedaliera, per quanto a volte troppo sopra le righe, strappa un affetto genuino e difficilmente controllabile.
Come nota personale, questo tipo di storie di malattia mi fanno sempre un effetto simile a film e serie sui grandi disastri: se c’è una cosa che è bello (re)imparare da questi racconti è la capacità di guardarsi intorno e apprezzare quello che si ha e che diamo troppo spesso per scontato. Senza contare la possibilità di sperimentare, nella sicurezza della finzione narrativa, la gestione di momenti difficili che, perima o poi, capitano a tutti.
Nel caso di Molly, poi, vedere la fame di vita con cui, sotto il giogo di un terribile conto alla rovescia, scopre nuove gioie e nuove possibilità, suona davvero come un invito ad aprire gli occhi alle opportunità dell’esistenza, ma soprattutto a un percorso di conoscenza interiore che possa portarci a capire cosa ci serve per essere felici, prima che sia troppo tardi.
A Michelle Williams, in ultimo, che le vuoi dire: a una capace di interpretare la dolce sensualità di Merilyn Monroe ma anche la goffa, adorabile lussuria di una malata terminale, si può solo applaudire.
Perché seguire Dying for Sex: tocca tanti temi importanti e riesce a farlo con leggerezza, senza per questo essere banale.
Perché mollare Dying for Sex: la dose di zucchero resta elevata, e può diventare un problema se siete fan del cinismo a tutti i costi.
