Pulse su Netflix – Una wannabe Grey’s Anatomy che non ce la fa di Diego Castelli
Il primo drama medical di Netflix sembra voler percorrere strade già tracciate, e non sembra nemmeno capace di farlo come si deve
In questo momento la mia vita recensiva (si dirà così?) si divide fra tre piattaforme: il sito dove mi state leggendo, il podcast dove parlo per un’ora e settimana, Tiktok dove sparo video di cinque minuti un po’ qui e un po’ là.
Il risultato è che una serie viene recensita prima in un posto e poi nell’altro, senza un ordine preciso, e con la possibilità che in mezzo, fra una recensione e l’altra, la mia opinione cambi almeno leggermente, influenzata dai ripensamenti e dai commenti nel frattempo accumulatisi.
Poteva essere anche il caso di Pulse, la serie medical di Netflix creata da Zoe Robyn che la sceneggia insieme a Carlton Cuse (già showrunner di Lost), e di cui ho già parlato abbastanza male a voce nei giorni scorsi.
Certi commenti assai contrastanti arrivati nel frattempo avrebbero anche potuto farmi riflettere ulteriormente, tipo “caspita, a un po’ di gente sta comunque piacendo, chiediamoci come mai”.
Poi in realtà no. Più ci penso, e più Pulse mi trasmette la sensazione di qualcosa di sbagliato, concepito pigramente e sviluppato malamente.
Ma vediamo nel dettaglio.

Da sinossi ufficiale, Pulse segue la vita privata e professionale di un gruppo di medici (chirurghi ed esperti di pronto soccorso) in un trauma center di Miami, il Maguire Hospital.
In questo senso, Pulse si configura come il primo procedural medicale di Netflix, una piattaforma che, ormai lo sappiamo bene, gioca esplicitamente in base alla strategia “‘ndo cojo cojo”, producendo qualunque cosa per qualunque pubblico.
In realtà, andando appena oltre la trama più generale, che fin dall’inizio mette i medici di fronte all’emergenza di una tempesta che farà molti feriti e riempirà il pronto soccorso, Pulse si porta dietro anche una questione più specifica: la protagonista Danny, interpretata da Willa Fitzgerald, è un’interna con velleità di carriera che ha da poco denunciato un suo superiore per molestie, vedendosi promuovere proprio per il posto lasciato vacante dal medico sospeso.
Un po’ per l’imbarazzo derivante da questa scelta, e un po’ perché scopriamo quasi subito che fra Danny e l’accusato Xander (Colin Woodell) non c’era un rapporto solo professionale, ecco che la nuova vita di Danny diventa ancora più difficile di quanto una specializzazione in medicina già non sia.

Non ci sono grandi dubbi che Pulse sia il tentativo di Netflix di avere una sua Grey’s Anatomy.
Lo si vede nel “macro” della struttura, con un medical che in realtà è una soap mascherata in cui le varie questioni mediche sono per lo più un pretesto per mettere in scena i drammi personali dei protagonisti.
Lo si vede nel “medio” di un cast di bellocci e bellocce in cui si può provare attrazione estetica per quasi tutti e tutte (senza contare una vero e proprio clone della Bailey, interpretato da Justina Machado, la Vanessa di Six Feet Under).
Lo si vede perfino nel micro, quando nel secondo episodio la protagonista dice a una collega una cosa del tipo “Hai presente Grey’s Anatomy? Ecco, dimenticala”, come a sottolineare che a Pulse si fa la medicina vera e non c’è tempo per frivolezze.
(Spoiler, non è vero, e anzi quella frase, specie così all’inizio, suona parecchio arrogantella per una serie che di Grey’s è una copia palese).
E intendiamoci, non che ci sia niente di male a ispirarsi a Grey’s Anatomy. Un po’ perché non esiste una serie che non tragga almeno in parte ispirazione da qualcun altra, e un po’ perché Grey’s Anatomy, pur essendo diventata una mezza macchietta nel corso di due decenni di programmazione, nei suoi primi anni fu una bomba vera, fortissima negli ascolti e molto innovativa nella scrittura e nella messa in scena, per il genere in cui si inseriva. In pratica, per certi versi, Grey’s Anatomy è stata la prima soap medicale di prima serata e di grande successo (nel day time invece ci sono esempi ben più anticihi).
Quindi non solo Pulse ha diritto a ispirarsi, ma aggiungerei anche un “je piacerebbe”.

Il problema di questo bell’accrocchio – che sembrerebbe fatto con tutti gli ingredienti giusti per essere glamour e però anche piccante e però anche drammatico e però anche inclusivo (non c’è solo la storia delle molestie, c’è una sorella della protagonista che fa medicina pure lei ed è in sedia a rotelle) – è che non funziona come vorrebbe e dovrebbe.
Il primo problema è che Danny è davvero antipatica. Se in Grey’s Anatomy la Ellen Pompeo dei primi anni, in coppia con la ben più brava Sandra Oh, formava un duo di ragazze in gamba e resilienti, ma pure capaci di simpatia e frizzantezza, Danny è una palla al piede praticamente dal minuto uno, come un po’ tutti i suoi colleghi.
E attenzione, qui non si parla del fatto che la sceneggiatura giustifichi o meno il suo essere tesa o scontrosa, perché il personaggio, di per sé, i motivi ce li ha. Il problema è mettere in piedi una serie che, a partire dal casting, punta a farci piacere buona parte dei personaggi, ma poi a conti fatti è difficile fare il tifo per qualcuno, per lo meno di quelli importanti.

Dal punto di vista del medical puro, cioè del racconto delle procedure ospedaliere, dei casi di puntata e via dicendo, Pulse è robetta: negli stessi giorni su MAX andava in onda The Pitt, che probabilmente arriverà in Italia nel 2026, e che sta due piani sopra.
Ma perfino Grey’s Anatomy, che metteva in scena un medical quasi fantasy, giocava però sui casi vertiginosi, bizzarri, sullo stupore degli stessi protagonisti nel trovarsi di fronte gente conciata così male, e per motivi così assurdi.
Poteva piacere o non piacere, ma era una cifra di stile che ben si sposava con l’approccio generale, più spettacolare e fascinoso di altri medical più rigorosi alla ER (che non vuole dire “del tutto realistici” eh, ma ci siamo capiti).
In Pulse, dopo un paio di settimane dalla visione già non mi ricordo più neanche un caso medico. Non sono ben scritti, non sono ben messi in scena, e i personaggi dicono parole a caso per creare confusione, senza gli spettatori riescano ad avere l’impressione di averci capito qualcosa.
Perché questo dovrebbe fare un medical: non insegnarti la medicina, ma darti l’impressione di capirci abbastanza in quel preciso momento, per provare le adeguate emozioni e sentire la necessaria urgenza.

Se Pulse è già una Grey’s Anatomy che non ce la fa (e che pare più vecchia e lenta di una serie di vent’anni fa), c’è poi un problema grosso che riguarda proprio quel centro narrativo rappresentato dalla questione delle molestie.
Come detto, Danny denuncia un suo superiore con cui però in realtà aveva una storia (lo si capisce già nel primo episodio, non è un grande spoiler). Da lì in poi, la ricostruzione di quale è (o sarebbe) stata la molestia, unita all’approfondimento della relazione fra i due e delle opinioni che di quella stessa relazione hanno i colleghi, diventa il filo rosso che unisce tutti gli episodi, la vera e propria trama orizzontale che diventa il motivo per cui, in teoria, si vuole rimanere incollati fino alla fine.
A pensarci bene, anche questo sembra un chiaro riferimento a Grey’s Anatomy, aggiornato ai tempi che corrono: se in Grey’s nessuno si prendeva male per il fatto che la giovane specializzanda si era fatta il suo capo (anche se la prima volta non lo sapeva), tanto da crearci intorno una frizzante storia d’amore, in Pulse questa cosa non si può più fare con leggerezza, e genera una certa quantità di malessere, domande esistenziali, timori professionali e quant’altro.

Tutto legittimo, magari un po’ pesantone, ma legittimo. Se non fosse che più ci addentriamo nella questione, e più ci sembra che la molestia e la denuncia siano solo un pretesto per fare drama, e per rendere più complicata la storia d’amore.
Non voglio spoilerare troppo su questo punto, ma l’impressione generale è che il tema delle molestie – inflazionato finché si vuole ma comunque piuttosto delicato – non sia minimamente trattato con il rigore che meriterebbe, trasformandosi in una sceneggiata pastrocchiosa che non ha alcuna intenzione di insegnare qualcosa di giusto o accrescere qualche consapevolezza, ma solo di fare casino in nome dell’intrattenimento.
Alla fine degli otto episodi, un tema importante come quelle delle molestie sul lavoro appare trattato con estrema superficialità, perfino svilito, preda di personaggi che sembrano non averlo nemmeno capito, ma non nel senso di fargli compiere un percorso di consapevolezza, ma nel senso di “sì beh abbiamo usato le molestie perché ne parlano tutti ed è cool, ma non è che volevamo parlarne seriamente”.
Raga, non si può fare sta roba, non è un argomento su cui si possa cazzeggiare a caso, in una serie che, comunque, non è né comica né satirica.

Insomma, per me è no. Non è che non esista un solo motivo di guardare Pulse, né si può negare che, una volta entrati nel meccanismo, ci sia per lo meno il desiderio di vedere come va a finire.
Però è tutto troppo poco, troppo “meno” rispetto ad altre serie a cui Pulse sembra ispirarsi, senza il necessario mordente e con troppi personaggi odiosi.
Si finisce l’ultimo episodio, che peraltro non ha nemmeno un cliffhanger interessante, con l’impressione di essersi tolti un peso, e non credo che sia esattamente l’esito migliore per una serie tv piena di bellocci.
Perché seguire Pulse: se Grey’s Anatomy vi piace così tanto da poter apprezzare anche la cugina (parecchio) povera.
Perché mollare Pulse: non c’è nulla che sia “davvero” ben fatto, e la questione delle molestie sul lavoro è trattata con una superficialità irritante.
