30 Aprile 2025

You ultima stagione – La chiusura del cerchio di Diego Castelli

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ATTENZIONE! SPOILER SUL FINALE DI SERIE!

Dopo la sua ultima stagione, arrivata su Netflix lo scorso 24 aprile, You rimarrà un caso interessante di serie che è riuscita a diventare famosa (anche) per via di una prospettiva molto particolare, trasgressiva, provocatoria, ma con cui nel corso degli anni ha dovuto fare certi inevitabili conti.

Debuttata nell’autunno del 2018, a solo un anno dall’inizio del MeToo e di un percorso di riflessione e consapevolezza collettiva che, a volte virtuosamente a volte goffamente, avrebbe poi riverberato su tutta Hollywood, You arriva a un’ultima stagione in cui bisognava prendere delle decisioni sul suo protagonista assassino, uno di cui abbiamo sempre conosciuto il punto di vista, uno che era pensato per esercitare un certo fascino anche sugli spettatori e spettatrici.

Se quel fascino funzionava e funziona dal punto di vista prettamente televisivo, la conclusione della sua storia poneva questioni di ordine più alto. O meglio, forse nemmeno le poneva, queste questioni, ma la soluzione poteva essere solo una. Come ci si sarebbe arrivati, però, era un altro paio di maniche.

Siccome l’elemento filosofico della faccenda rischia di coprire tutto il resto, facciamo subito una nota tecnica. Al suo esordio, You non era pensata per Netflix, bensì per la tv generalista, e si vedeva: in tutti gli episodi succedevano cose rilevanti, e ogni puntata terminava con un bel cliffhanger.
Quell’impostazione, così lontana (specie nel 2018) dai “film da 10 ore” tipici del binge watching di Netflix, riuscì a colpire anche sulla piattaforma di streaming, perché caso vuole che se tu scrivi un racconto a episodi in cui ogni episodio è pieno di roba, la gente tendenzialmente si divertez e vuole vedere quello successivo (se vedete un tono polemico in quest’ultima frase, esatto, c’è).

Questa scrittura, per fortuna, è rimasta un caposaldo di You fino alla sua conclusione, e anche la quinta stagione brilla per la capacità di costruire trame ricche di eventi e sorprese, lasciando agli spettatori poco spazio per tirare il fiato e poco margine per prendere in considerazione l’idea di abbandonare: hai sempre voglia di vedere subito l’episodio successivo, in un modo che spesso nemmeno le serie pensate fin dall’inizio per il binge riescono a fare.

Naturalmente, esiste anche un rovescio della medaglia, con alcuni sviluppi più forzati e una verosimiglianza che ha sempre scricchiolato e che in questa quinta stagione rischia di scricchiolare anche di più.
Ma d’altronde è la solita, infinita battaglia del realismo: siamo abituati a dare un certo valore alle serie “realistiche”, ma sappiamo anche che troppo realismo può essere un problema, perché la realtà è piuttosto noiosa.

Fatta questa premessa, e detto quindi che, in termini di passo narrativo, You è sempre You, la quinta stagione rappresenta però un ribaltamento importante dal punto di vista morale.
La serie di Greg Berlanti, tratta dai romanzi di Caroline Kepnes, aveva potuto giocare fin dall’inizio con una certa dose di ambiguità. Per dirla semplice: sappiamo che Joe è un criminale, eppure seguiamo la storia dal suo punto di vista, osserviamo i processi del suo pensiero, e finiamo con il tifare non tanto “per lui”, quando per la sopravvivenza della serie, che è legata a doppio filo alla sopravvivenza del protagonista.

Arrivati all’ultima stagione, però, quando ormai Joe ha ucciso un sacco di gente, e soprattutto un sacco di donne di cui aveva detto di essere innamorato, gli autori dovevano prendere delle decisioni: dare a Joe un lieto fine, nel senso di un’ultima storia d’amore che funziona? Condannarlo alla singletudine, ma dandogli il beneficio della libertà? Oppure condannarlo per i suoi crimini, uccidendolo e/o facendolo arrestare?
La scelta finale può suonare forse banale o addirittura “obbligatoria”, ma non significa che ci si arrivi in modo scontato.

Alla fine di You, Joe Goldberg viene effettivamente arrestato, dopo lo sforzo congiunto di diverse donne del suo passato più o meno recente (quelle ancora vive), e grazie al contributo decisivo di un nuovo personaggio femminile che si fa chiamare Bronte (interpretata da Madeline Brewer, che non è altro che Janine di The Handmaid’s Tale).

Quello a cui assistiamo nell’ultima stagione è un ribaltamento del classico canovaccio per cui Joe compie le sue turpitudini, trovando sempre una scappatoia e un modo per reinventare la propria vita: questa volta il gioco non riesce, anche perché le donne rimaste indietro a combattere sono troppe, e la stessa Bronte è in realtà una specie di infiltrata, una ragazza che già sapeva della sua pericolosità, ed entra nella sua vita con il preciso scopo di manipolarlo fino a sconfiggerlo.

Da questo punto di vista, la serie procede dunque a mondare i propri peccati, mostrandoci la cattura e la condanna di un protagonista malvagio per cui ci ha fatto tifare, volenti o nolenti, per diversi anni.

A essere interessanti, in questo percorso, sono però due diversi dettagli importanti. Il primo è che il punto di vista sulla storia effettivamente non cambia. Dopo stagioni passate a raccontare gli eventi secondo la prospettiva del protagonista, con la sua ossessiva voce fuori campo, anche la quinta stagione parte e si sviluppa dalle stesse premesse, eppure conduce a un cambiamento.

È un lavoro di scrittura più sottile di quello che sembra, perché prevede che le riflessioni e le autoassoluzioni di Joe, che al suo orecchio suonano come pienamente giustificate e perfino “romantiche”, diventino sempre più ossessive, esagerate, difficilmente accetabili, specie quando a loro vengono affiancate le testimonianze di un numero sempre crescente di vittime.

Cerchiamo di essere chiari: non è che You avesse mai condonato o giustificato le azioni di Joe. Ma garantiva al personaggio un fascino, un magnetismo, che ci costringeva a considerarlo uno che ci “piaceva”.
Con la quinta stagione, e senza cambiare quasi mai il punto di vista, Joe diventa invece un protagonista sempre più sgradevole, perché il suo falso romanticismo (che sembrava sempre proiettato verso un’altra persona, poi sistematicamente punita per il suo tradimento) svela sempre più il suo vero volto di egoismo e narcisismo.

In questo, poi, aiuta proprio il percorso di Bronte: nel corso di una sola stagione, con una rapidità a volte forzata ma che resta coerente col tipo di discorso che porta avanti, Bronte passa dall’essere una ragazza che ha contattato Joe per incastrarlo, ad accettare la possibilità di amarlo veramente, per poi tornare sui propri passi e cercare di ucciderlo.

In questo senso, la parabola di Bronte è un riassunto della nostra: la consapevolezza di un pericolo, poi la fascinazione che porta a decisioni rischiose, infine il ritorno a un’altra consapevolezza, più profonda e decisiva perché vissuta sulla propria pelle.

Ecco allora che You, nel suo complesso e comprendendo un finale che qualcuno, al primo sguardo, potrebbe anche considerare buonista, rappresenta una specie di seduta collettiva di terapia. O un esorcismo, se volete.

Con i suoi ultimi episodi, la serie trova il modo di spezzare l’incantesimo e mettere in catene lo stregone cattivo, senza opporgli un mago di uguale e contraria potenza, ma piuttosto facendo crescere la forza delle sue vittime, che sono sia le donne che Joe ha soggiogato, sia noi spettatori che per anni abbiamo seguito morbosamente le sue storie.

Il passaggio, graduale, sottile, ma evidente, è quello da “fammi vedere come riesce a cavarsela anche questa volta”, a “dai che stavolta lo beccano, speriamo”.
Compiere questo percorso senza sostituire Joe con un altro cattivo, ma portando le donne della serie a pensare che si sta proprio meglio senza persone come Joe, mi sembra il risultato migliore e più lucido conquistato dalla serie.

Non è nemmeno un caso che, alla fine, quando Joe si trova effettivamente all’interno di un carcere che non lascerà mai più, ci sia spazio per un’ultima riflessione e, soprattutto, un’ultima interpellazione degli spettatori.

Nella sua cella, Joe sta ricevendo decine di lettere di ammiratrici innamoratissime, come sappiamo effettivamente succedere spesso quando queste figure varcano le soglie delle prigione. A quel punto è proprio lui, che, rivolgendosi a noi, nota come questa pratica nasconda problemi piuttosto inquietanti, ma invece di liquidare queste spasimanti come delle fragili, bizzarre eccezioni, le mette in confronto proprio con noi.
L’ultimo “you” pronunciato dal protagonista è rivolto a noi, ci chiede un ultimo sforzo di consapevolezza che sia buono per il futuro: che differenza c’è fra una ragazza che scrive lettere d’amore a un serial killer in carcere, e una persona che quel serial killer l’ha seguito per anni su Netflix, sperando ogni volta che se la cavasse per poter proseguire la storia?

Ovvio che una differenza c’è, ma quella scena esplicita tutto il portato metaforico di una serie che ha giocato con noi, facendo quello che il cinema fa da sempre, cioè permetterci di vivere situazioni di pericolo in una condizione di sicurezza, per emozionarci sì, ma anche per insegnarci qualcosa.

L’importante è, appunto, che ci insegni.
Se guardate i voti su imdb (che non va preso come “La Verità”, ma talvolta aiuta a cogliere un sentimento), l’ultimo episodio della serie non ha ricevuto buoni voti, al contrario degli episodi immediatamente precedenti.

Questo si deve in parte a errori specificamente suoi: il piano di Bronte di portare Joe in un posto isolato per poi gestirlo da sola è sembrato molto (troppo) forzato, un tentativo di creare un ultimo boost di pathos, che però sembra troppo scritto, troppo rapido, poco coerente con lo sviluppo della trama fino a quel momento. Insomma, non è un finale privo di problemi strettamente narrativi e di messa in scena.
Discorso simile per il destino di Kate, anche lei colpevole di un certo numero di crimini, ma “assolta” con troppa facilità in quanto co-vittima di Joe.

E però, se cercate su internet, troverete anche delle critiche più precise, di persone che non volevano vedere Joe in prigione. Persone, insomma, che non si sono svegliate dall’incantesimo dello stregone, per le quali l’antidoto si è rivelato troppo sfumato.

Per certi versi, anche questa è una vittoria della serie, o quanto meno un potenziamento del suo monito. Partita come un prodotto dalla moralità ambigua, e terminata come uno show che ha trasformato quell’ambiguitià in un insegnamento, You ci ha fatto vivere con mano il fascino esercitabile da certi personaggi tossici, specie quelli con la faccia pulita di Penn Badgley, capaci di irretire le proprie vittime perfino quando sanno di stare infilandosi in un territorio pericoloso, credendo di avere gli strumenti per difendersi, salvo scoprire troppo tardi di essere più fragili di quanto pensassero.

Non è nemmeno un discorso nuovo o inattuale: ancora oggi vediamo persone inneggiare agli insegnamenti di vita di Tyler Durden di Fight Club (un pazzo assoluto, dipinto come tale dal libro/film, ma che finisce con l’essere un guru), o memizzare e idolatrare la vita di Patrick Bateman, il protagonista di American Psycho che da soggetto dell’ironia feroce e corrosiva di Bret Easton Ellis diventa oggetto di una perversa invidia per certi giovani del 2025.
È il terribile e meraviglioso potere delle narrazioni.

You non è al livello di quei capolavori, ma il lavoro che ha fatto è stato simile: anno dopo anno, ci ha fatto innamorare di un personaggio tossico, per poi mostrarci il nostro errore, sperando che questo percorso possa rappresentare un insegnamento per il futuro. Il fatto che qualcuno non abbia capito, non abbiamo imparato, è forse l’esempio più evidente di quanto una narrazione del genere possa essere pericolosa: se funziona sul piccolo schermo, pensate nella vita reale…



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