Andor Series Finale – La perfetta chiusura del cerchio di Diego Castelli
Andor si conferma una delle migliori cose seriali a marchio Star Wars e il suo finale trasmette un grande senso di completezza
OVVIAMENTE È PIENO DI SPOILER, ANCHE DI ROGUE ONE
Settimana scorsa, nei giorni dell’uscita del finale di Andor, mi trovavo a Cannes in trasferta lavorativa, conscio del fatto che avrei dovuto mettere in pausa la mia solita dieta seriale, con l’idea di recuperare poi tutto con calma.
Naturalmente, però, non potevo farlo con gli ultimi tre episodi di Andor, che pulsavano nel mondo etereo dello streaming chiamandomi a sé. E allora vai con visioni a colazione e con episodi salvati sul cellulare, da attivare nei non molti momenti morti.
Una visione poco attenta, mi si obietterà, poco responsabile. A parte che fatevi i fatti vostri, ma in realtà no, anzi: vedere come questi tre episodi riuscivano a brillare anche sotto il sole della riviera, imponendo la loro forza narrativa, la loro epica, il loro senso di inesorabilità rispetto al resto dell’universo di George Lucas, hanno rimarcato nuovamente una verità che conoscevamo, ma che è stato bello confermare fino all’ultimo: che capolavoro è stata Andor.

In maniera non proprio usuale per Serial Minds, avevo già pubblicato un articolo due settimane fa, per parlare del penultimo blocco di episodi. Il motivo era la grande precisione con cui quelle tre puntate si ponevano come una specie di saggio sulle dittature, che prendeva a prestito la lezione di storia della resistenza francese al nazismo per raccontare qualcosa di più generale sul modo in cui gli esseri umani sanno combattere, dominare, annichilire i propri simili, con scientifica pazienza e progettazione.
Sapevamo però che, dopo quella parentesi quasi accademica, sarebbe arrivato un finale che aveva il compito non facile di chiudere un cerchio insieme piccolo e grande: piccolo perché partiva da Rogue One, un film di quasi dieci anni fa che approfondiva un dettaglio della saga di Star Wars, per rifinire ancora altri dettagli, rimanendo spesso distante dagli eventi che hanno composto la spina dorsale di una saga quarantennale.
E però anche grande, perché è proprio nell’approfondire certi dettagli che una volta consideravamo secondari, che Andor ha in qualche modo allargato ulteriormente l’universo di Guerre Stellari, mostrandocene nuovi lati, nuove sfumature, fermandosi a raccontare della vastità spaziale e umana di un impero pieno di popoli, eserciti, entità statali, burocrazie, al punto da farci chiedere, in più momenti, se quello che stavamo vedendo fosse davvero Star Wars (riflessione che abbiamo già fatto in passato e torna sempre utile).
Insomma, un po’ come quei video su internet in cui un artista digitale dipinge mondi sempre più piccoli, uno dentro l’altro, eppure ognuno capace di contenere mille elementi.

Se il penultimo blocco era un saggio sulla dittatura, gli ultimi tre episodi sono probabilmente un saggio sul sacrificio. Una trattazione in cui, consapevolmente, la figura di Cassian Andor non domina costantemente la scena, rimanendo spesso sullo sfondo, per dare attenzione a figure perfino più laterali (perché Cassian, di fatto, è una figura laterale della saga, ma perfino del film che l’ha introdotto), ma che servono a dare ancora più spessore al racconto.
Il pensiero va immediatamente a Kleya, braccio destro di Luthen. Il primo dei tre ultimi episodi ci mostra la sua infanzia accanto al capo segreto dei ribelli, e la sua formazione pratica ma anche etica, valoriale. Un percorso che conduce Kleya a essere un’arma formidabile della ribellione, così legata alla propria missione da tributarle un estremo sacrificio: tutta la scena in cui Kleya si introduce nell’ospedale imperiale per raggiungere il corpo ferito di Luthen (che aveva cercato di uccidersi per non essere interrogato da Dedra Meero) ci appassiona come la più classica e riuscita delle scene di inflitrazione e salvataggio.
Solo che non c’è alcun salvataggio: Kleya non cerca di raggiungere Luthen per portarlo al sicuro, ma piuttosto per completare la sua opera. Giunta accanto al corpo esanime dell’amico e mentore, infatti, Kleya lo stacca dalle macchine che lo tengono in vita, rendendo effettivamente proficuo il suo sacrificio.

Naturalmente non sono gli unici sacrifici di questo finale, perché Mon Mothma che rinuncia alla sua posizione aristocratica e politica (già negli episodi precedenti) per unirsi alla ribellione, è un sacrificio personale in nome del bene comune, nonché una scusa per vestirla e pettinarla come la Mon Mothma dei film originali, giusto per darci uno dei molti brividini nostalgici di questa serie.
Ma anche tutta la vita di Andor pare ormai un unico sacrificio, un uomo che in più occasioni ha mostrato una certa difficoltà a rimanere nei ranghi ma anche solo a considerarsi parte di una ribellione a cui, però, finirà col dare tutto sé stesso.
E pure Bix, a cui però dedichiamo un capitoletto a parte, è una donna che ha rinunciato all’amore e a una piena vita familiare, perché sapeva che la ribellione le chiedeva semplicemente quello, di non portarsi via uno dei suoi eroi più promettenti.

Da qui comincia un grande e riuscitissimo lavoro di raccordo fra questa serie e il film da cui deriva, che a sua volta fungeva da giunto connettore fra la saga di Star Wars e certe sue leggerezze di scrittura, diventate più evidenti col passare degli anni e la sempre maggiore raffinatezza dei suoi fan.
Nel finale di Andor rispunta, come è ovvio, la Morte Nera, la mitica stazione spaziale di cui in Rogue One si volevano (vorranno) spacciare i piani di costruzione, e che in Andor viene semplicemente conosciuta per la prima volta come progetto super segreto che darebbe all’Impero un’arma definitiva e invincibile.
Come accaduto in passato proprio con Rogue One, questo avvicinamento progressivo alla Morte Nera (il cui nome italiano comincia a diventare sempre meno calzante rispetto all’originale “Death Star”, Stella della Morte, ma che ci dobbiamo fare…) permette di innervare la saga di carne e sangue, di bulloni e travi, perché la stazione non è solo un mostro gigante che compare dal nulla, come inevitabilmente accadeva nella trilogia originale, bensì un prodotto dell’umana perfidia, una costruzione progressiva per cui un intero sistema di personaggi traffica e lavora per arrivare al suo completamente o, al contrario, alla sua scoperta e distruzione (come fa il suo stesso progettista Galen Erso, che non compare in Rogue One ma viene per la prima volta nominato).

La caratteristica più unica che rara di Andor è quella di essere una serie tv dal finale pensato e dichiarato come tale, che però non avrebbe più di tanto le caratteristiche del vero e proprio finale, perché nel racconto della preparazione della missione su Kafrene suona ancora, per l’appunto, preparatorio, come se gli mancansse un pezzo.
Solo che quel pezzo mancante c’è già: non è un caso che, nei giorni successivi al finale di Andor, si siano impennate le visualizzazioni di Rogue One su Disney+, un film che nasceva come prequel della saga principale, e che ora diventa il finale de facto di una serie tv, probabilmente il miglior “finale a tv movie” della storia della serialità televisiva.
Per quanto ci siano alcuni singoli elementi delle ultime battute di Andor che hanno il respiro lungo di certi grandi finali (e dobbiamo ancora parlare di Bix), la scelta è stata proprio quella di non superare un certo limite: Tony Gilroy, creatore della serie, fa sfoggio di umiltà evitando di forzare un finalone gigante del suo show, sapendo perfettamente che poi si sarebbe dovuto incastrare con un film che è presente sulla stessa piattaforma, e quindi disponibile a chiunque voglia vederlo appena finita la serie (comunque Gilroy è pure uno degli sceneggiatori di Rogue One, quindi è stato più che altro buono con sé stesso).
Ancora una volta, quella sensazione di ingranaggi che si incastrano perfettamente gli uni con gli altri.

Il tempo sta scadendo, ma faremmo un torto a non concedere ad Andor anche un giusto tributo meramente tecnico: abbiamo già parlato in passato di come la serie di Disney+ riuscisse meglio di chiunque altro (molto meglio della pur riabilitata trilogia prequel di George Lucas, per esempio) a restare fedele all’artigianalità degli originali, e da questo punto di vista la seconda stagione non ha cambiato rotta.
Se in questo ciclo di episodi abbiamo potuto vivere come credibilissimo un parallelo con la Francia occupata dai nazisti, è anche perché Andor ha lavorato ancora di più e ancora meglio sul miscuglio fra antico e moderno, giocando sul senso arcaico che le tecnologie, scenografie, costumi starwarsiani hanno su di noi oggi, e facendone motivo d’orgoglio, marchio di fabbrica, distintivo da sfoggiare sul petto.
Gli ultimi tre, con il gradito ritorno del droide K-2SO doppiato da Alan Tudyk, sono stati episodi drammatici e potenti, ma anche capaci di offrire azione, avventura, e perfino divertimento caciarone, con il plus di alcuni momenti di puro entusiasmo quando il droide correva a salvare i suoi amici menando come un fabbro.
Insomma, una serie completa sotto ogni punto di vista: dall’idea iniziale al suo sviluppo, dall’incastro narrativo con il resto della saga, a quello specificamente visivo, pur mantenendo la sua evidentissima anima adulta, concreta, quasi burocratica.

L’unico difettuccio che io trovo a questa stagione, al di là di due peccati veniali come un secondo blocco di episodi un po’ più moscio e la sostituzione di Jimmy Smits con Benjamin Bratt nei panni di Bail Organa (ma è stata una decisione dello stesso Smits, che aveva altri impegni, sa Dio quali impegni puoi avere più importanti di questo…), sono le scelte legate a Bix.
In generale, la storia d’amore fra lei e Cassian l’ho sempre trovata un po’ forzata, una specie di “dobbiamo farlo” quando in realtà non ce n’era alcun bisogno.
Sul finale, dopo che Bix se n’è andata per impedire che Andor lasciasse la ribellione, vediamo che in realtà la donna era incinta, e nel frattempo ha dato alla luce un figlio che Cassian non vedrà mai, e di cui non saprà mai nulla.
Ora, a voler essere indulgenti possiamo dire che proprio questo figlio potrebbe aver rappresentato una spinta ulteriore per Bix, consapevole che Cassian non avrebbe mai potuto fare quello che doveva, se avesse saputo di essere padre.
In realtà, però, le ultime, insistite inquadrature di Bix nel campo di grano sembrano suggerire anche un’altra interpretazione, cioè la “rassicurazione”, nei confronti del pubblico, del fatto che esiste un’eredità di sangue di Andor, una legacy fattuale, biologica, e non solo politico-militare.

Ecco, a me questo dettaglio è sembrato superfluo, se non addirittura (ma so di usare una parola un po’ troppo forte) offensivo nei confronti della missione di Andor.
Per dirla in altri termini: chi se ne frega se Cassian ha avuto un figlio, non abbiamo bisogno di ricevere il contentino di un’eredità biologica per dare senso alla vita del protagonista, come se solo attraverso un figlio potesse considerare completa la sua esistenza.
La vita di Cassian, così come la vita di tutte le persone impegnate e perite per la resistenza contro il Male, trova senso ed eredità nelle sue stesse azioni e nel suo stesso sacrificio. Tutta la galassia dovrà essere debitrice di Andor, e un numero incalcolabile di persone potrà vivere (e vivere bene) grazie alle sue azioni, esattamente come potremmo pensare noi di chi ha combattuto il nazifascismo nella Seconda Guerra Mondiale.
Legare il completamento della vita di Andor alla sua riproduzione mi è sembrato un filo svilente, o quanto meno superfluo.
Ma questa magari è anche la semplice opinione di uno che non ha figli, forse mai ne avrà, e non vuole sentirsi dire che la sua esistenza non ha valore a meno di riprodursi.
Senza contare che magari avremo una prossima serie con il figlio di Cassian, chi lo sa.

A conti fatti, Andor è probabilmente la cosa seriale migliore mai partorita dall’universo di Star Wars (diciamo in live action, lasciando da parte le Clone Wars animate).
Il fatto che ci siano un po’ di persone che ne rinnegano l’impostazione adulta, preferendo approcci più fiabeschi e avventurosi come da materiale originale, non cambia però il fatto che, all’interno della cornice che si è consapevolmente costruita, Andor non ha sbagliato praticamente nulla di rilevante, mantenendo un controllo saldissimo su tutti i propri dettagli, le proprie coerenze interne, i propri obiettivi.
Per quanto mi riguarda personalmente, non è stato un percorso sempre semplicissimo, ci sono stati alti e bassi, ci sono state complicazioni. Tuttavia, al termine del (nemmeno troppo lungo) percorso, la sensazione di pienezza è totale, ed è inebriante pensare come si sia riusciti a prendere un universo che consideravamo più o meno fisso e immutabile, nei suoi pregi e difetti, per mostrarci quanto ancora si potesse raccontare, trovando nuovi punti di vista e fomentando il cervello di chi magari ha visto gli originali con occhi di bambino, e che ora può permettersi anche deviazioni più consapevoli, mature, spesse.
Un grande, grande lavorone, e da quando sono tornato a casa non ho ancora avuto modo di riguardare Rogue One, cosa che farò a breve, col cuore molto più gonfio di quanto non avessi fatto la prima volta.