28 Maggio 2025

The Last of Us 2 season finale – Fra sangue, vendette e polemiche di Diego Castelli

Dopo la recensione senza spoiler di qualche mese fa, possiamo dirci qualcosa di più puntuale sulla seconda stagione di The Last of Us

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ATTENZIONE! SPOILER SU TUTTA LA SECONDA STAGIONE

La cosa bella di scrivere due, anzi no, tre articoli su una sola stagione di una serie, di cui uno già “completo” ma semplicemente privo di spoiler, fa sì che, volendo riparlare della seconda stagione di The Last of Us, io non debba fare chissà quali recapponi e introduzioni.
La mia recensione e, di conseguenza, opinione generale su questa seconda stagione la trovate ancora qui (l’opinione non è cambiata), mentre qui c’era un approfondimento d’obbligo dopo la seconda puntata stagionale, quella in cui succedevano cose turpi.

Oggi possiamo andare dritti al punto, fare spoiler, e anche affrontare qualche questione più spinosa, perché da quando espressi la mia prima opinione ne sono poi arrivate letteralmente milioni di altre, e vale la pena vedere com’è andata.

Per dircela subito chiara, per me gli episodi migliori di questa seconda stagione sono facilmente due, il secondo e il sesto.
Il secondo è quello con la morte di Joel e l’attacco a Jackson, il sesto quello con il lungo e articolato flashback che risponde al diverse domande importanti che erano state poste all’inizio della stagione: su tutte, i motivi della freddezza fra Joel e Ellie e il ruolo di Eugene in quella dinamica.

The Last of Us non è Lost, i misteri che semina non sono pantani in cui affogare, ma semplicemente trucchi narrativi vecchi come il mondo, con cui costruire una tensione drammatica con la prospettiva di scioglierla a n certo punto.
In questo senso, il sesto episodio è splendido non solo perché ci gratifica con le risposte che aspettavamo da settimane (quanto sarebbe stato meno potente tutto questo con il binge watching?), ma anche perché mette a nudo non tanto i “difetti” dei personaggi, che detta così è un po’ infantile, ma piuttosto la loro umanità e come quell’umanità può diventare oscura, se vista da una prospettiva leggermente differente.

Così, se alla fine della prima stagione la scelta di Joel di sacrificare… be’, il futuro dell’umanità per la salvezza di Ellie, ci era parsa estrema eppure condivisibile, cinematograficamente poetica, ora nel vedere il modo in cui il suo istinto di protezione si trasforma facilmente in un freddo dirigismo che lo porta a prendere decisioni che non gli competono, la sua figura protettiva diventa anche inquietante, quasi tossica.

Il discorso finale sotto il portico, che ci ricollega esplicitamente a quando visto a inizio stagione, è un momento durissimo in cui un amore totalizzante è in realtà la causa di uno squilibrio fra i personaggi, che noi sappiamo non verrà mai sanato, perché Joel morirà prima di una vera e propria riappacificazione.

Inutile dire, poi, che il fatto che tutto questo arrivi dopo che l’episodio ci ha mostrato i vari compleanni di Ellie, in cui Joel lavorava per darle, per quanto possibile, la felicità giovanile che meritava, rende lo strappo ancora più doloroso ma anche molto vero, una specie di iperbole di tanti rapporti genitori-figli, in cui a un certo punto si arriva a una qualche forma di divisione che deve portare l’uccellino a uscire dal nido.
Il fatto poi che qui fuori dal nido ci siano mostri e assassini, rende il tutto un filo più complicato.

La puntata finale, nel complesso, non riesce a tenere il livello sempre alto come l’episodio appena precedente, e per buona parte si accontenta di un po’ di chiarimenti fra Ellie e Jesse, che vivono una rivalità nata anche dal fatto di condividere la stessa donna: Ellie per amore, Jesse per futura paternità.

Neglu ultimi minuti, però, ci si rialza di nuovo. La scena in cui Ellie uccide i due amici di Abby, senza rendersi conto che una dei due è incinta, è deliziosamente feroce perché gioca con alcuni classici stereotipi cinematografici, schiacciandoli sotto il peso della realtà: in un qualunque film-serie in cui una donna incinta e morente supplichi la persona davanti a lei di praticarle un cesareo d’urgenza, già sappiamo che quell’operazione avrà successo contro ogni probabilità.
Qui, invece, Ellie prende in mano la lama ma si rende conto di non avere alcuna idea di cosa fare: no ragazza, questo non è un film, e la donna incinta a cui hai sparato (mentre intanto stai cercando di proteggerne un’altra) morirà dissanguata sotto i tuoi occhi senza che tu possa farci niente.

Dopo la morte di Jesse, resa più forte, improvvisa e cruda proprio perché eravamo appena tornati a considerarlo un personaggio decisivo, avvia verso un cliffhanger in cui un improvviso flashback svela quello che ormai è un segreto di Pulcinella: la terza stagione (delle probabili quattro) sarà tutta o quasi dedicata alla storia di Abby.

Per me questa è ottima televisione, e una stagione complessivamente superiore alla prima (che finiva col risultare più “standard” nel suo genere). Con tutto che c’è IL grande difetto: una larga parte di ciò che io considero determinante nel fare del secondo gioco di The Last of Us un capolavoro, sta dopo quello che abbiamo visto, in una storia che i videogiocatori hanno esperito tutta in una volta, e che invece gli spettatori devono assorbire in tre tranche molto distanti fra loro. Questo era e resta, per quanto mi riguarda, l’unico vero problema di una stagione che, anche senza aver giocato, suggerisce alcuni sviluppi che però non riesce ancora a mostrare.

E proprio il passaggio da videogioco a serie tv, come e più che per la prima stagione, ha creato un po’ di malumori.
Archiviamo per il momento le ormai ripetitive polemiche sul casting (a quelle sull’aspetto di Bella Ramsey, molto diversa da Ellie, si sono aggiunge quelle per il fisico di Kaitlyn Dever, a sua volta assai differente dalla Abby videoludica). Non perché non siano meritevoli di approfondimento, e nemmeno perché siano del tutto infondate (c’erano dei motivi precisi per cui Ellie nel gioco era una ragazzina dal volto stereotipicamente bello, e Abby una specie di armadio incazzato), ma semplicemente perché non si può parlare sempre delle stesse cose.

Ma andando oltre, appunto, la seconda stagione di The Last of Us si è portata dietro una uguale dose di elogi e malumori, variamente sfumati: se guardassi anche solo i commenti che ho letto nella mia piccola bolla, troviamo non-giocatori che hanno preferito la seconda stagione alla prima, e non-giocatori che invece l’hanno destestata, e poi giocatori che si sono entusiasmati, e altri che hanno bestemmiato dall’inizio alla fine.

Naturalmente, tutte le opinioni di gusto sono legittime, specie a fronte di scelte palesemente divisive. Pensiamo alla morte di Joel, che ha diviso gli spettatori tanto quanto all’epoca divise i giocatori. Se ti ammazzano quello che consideri l’eroe, e che una certa abitudine culturale ti ha portato a considerare come tale, chiaramente rimani spiazzato, e non tutte le sensazioni saranno positive.
Il fatto che sia nel gioco che nella serie ci fosse la precisa volontà di cambiare la prospettiva sulla storia non rende quell’evento meno traumatico, al limite del “mollo tutto”, che forse viene anche più facile in tv, che non con un gioco che hai pagato decine di euro. Qualcuno, a commento di una puntata di Salta Intro, ha manifestato una frustrazione specifica per il fatto di aspettarsi un racconto di speranza e formazione, trovandosi invece di fronte una discesa agli abissi. Benvenuti all’inferno.

Ma al netto di quella decisione, in sé e per sé presa di peso dal gioco, ci sono poi altre scelte stilistiche, di scrittura e di messa in scena che hanno fatto incazzare un po’ di giocatori. C’è chi ha fatto notare come il percorso di Ellie, specie nella parte centrale della stagione, sia stato troppo centrato sull’amore per il pur bellissimo personaggio di Dina, e meno sulla vendetta e la ferocia che caratterizzavano il gioco. C’è chi ha sostenuto (e in fondo, come detto, io sono fra questi) che la divisione troppo netta fra “la stagione di Ellie” e la futura “stagione di Abby” stia impedendo quella compenetrazione che, senza esagerare con gli spoiler, dava densità e peso a una doppia prospettiva che la storia vuole esplorare cinematograficamente e filosoficamente. E si arriva a chi si è messo (sempre legittimamente) a fare le pulci alle singole inquadrature, alla scena della chitarra di Ellie che è diretta peggio che nel gioco, o alla morte di Joel che su Playstation era più cruda, fino ad arrivare a parlare del buonismo di chi non ammazza i cani (detta così fa un po’ sorridere, ma è uscita anche questa).

Ora, che quelle differenze (o buona parte di esse) esistano, è vero, alcune volute, altre magari meno. Credo però che esista una quota di masochismo, chiamiamolo così, che ormai vediamo spesso ogni volta che si tratta di parlare di adattamenti.

Una cosa che secondo me dovrebbe essere molto chiara, è che il secondo videogioco di The Last of Us è un capolavoro assoluto perché fa (e racconta) alcune cose che in un videogioco non si erano mai viste. Al cinema e in tv però sì. La differenza è che, quando sei tu che muovi un personaggio, invece che limitarti a guardarlo, cambiano molte cose rispetto al tuo rapporto con lui (“lei”, in questo caso), con la suspense generata dai rischi che corre, con la percezione del tempo in due formati in cui la storia viene vissuta secondo metriche e lunghezze assai diverse.

Più in generale, se The Last of Us è una delle saghe di videogiochi più vicine al cinema, e per questo diventata memorabile, l’idea che la sua trasposizione cinematografica potesse suonare innovativa e “spartiacque” come il gioco, semplicemente non sta in piedi. Se avete sperato in questa cosa, avete riposto male le vostre speranze.
No, girarla nello stesso modo non avrebbe cambiato granché. Magari avrebbe migliorato qualcosa, ai vostri occhi, ma non l’avrebbe resa superiore al gioco. Né potrà diventarlo da qui alla fine.

Mi ha fatto sorridere, per esempio, quando ho letto che un problema sarebbe la difficoltà, per la serie, di “lasciar andare” Joel, che con tre episodi su sette di apparizione rimarrebbe troppo presente, impedendo al resto di spiccare il volo. Solo che Joel muore presto come moriva presto nel gioco, con la differenza che su Playstation noi passiamo un sacco di tempo da soli con Ellie a cercare di tenerla in vita, in un modo che non è riproducibile in televisione, a meno di contemplare dieci episodi di solo Ellie che striscia dietro i mobili e intorno ai mostri, sai che noia.

Media diversi impongono scelte diverse e ritmi diversi, e se ve lo dice Neil Druckman, che ha creato sia il gioco che la serie, tenderei a credergli. Poi certo, alcune altre considerazioni restano: è vero che, fra terzo e quinto episodio, il percorso di Ellie sembra più amoroso e avventuroso, che oscuro e vendicativo. Questa però è una differenza che percepisce chi ha giocato al gioco, di cui si può lamentare, e che possiamo pure considerare un difetto produttivo: mai come nel 2025, se deludi i fan dell’originale, ti prendi dei grossi rischi. Ma da qui a parlare di una stagione che non funziona, ce ne corre parecchio. È semplicemente un racconto un po’ diverso, ma quegli episodi, nel racconto del rapporto fra Ellie e Dina, sono tutt’altro che “cattiva televisione”, come invece mi è capitato di leggere in questi giorni, scrollando mestamente la testa.

Questo non significa che io ritenga la stagione perfetta: quando identifichi 2-3 momenti proprio superiori agli altri, significa pure che è mancata un po’ di omogeneità. A prescindere da qualunque confronto con il gioco (un confronto che le maggior parte delle persone che guardano la serie non fa, semplicemente perché non ci ha mai giocato), è vero che Ellie viene condotta ad alcuni momenti di oscurità che, a fronte delle scene amorose precedenti, possono suonare troppo improvvisi, poco preparati. Così come è vero, cosa di cui peraltro si parla poco, che tutti i personaggi e le vicende che non riguardano direttamente Ellie, Joel e Abby, sono al momento un mero contorno (di soldati, scar e quant’altro, onestamente per ora ci interessa pochino).

E tuttavia, in questa stagione ci sono lampi di cinema purissimo, grandi tensioni, grandi commozioni, grandi interpretazioni (perché magari non tutte le facce suoneranno precise, ma il talento c’è eccome).
Con ogni probabilità, a giudicare dalle dichiarazioni di chi la serie la produce, si va verso una terza stagione con Abby protagonista, e una quarta stagione di riunificazione e definitiva deflagrazione delle storie. Non credo di fare grandi spoiler, ormai, se “svelo” che il secondo gioco di The Last of Us puntava (e punta, è ancora lì e sempre consiglio di giocarlo) a mostrare due lati di una stessa storia terribile, per ragionare sul giusto e lo sbagliato, l’umano e l’inumano, i buoni e i cattivi, ma soprattutto sul confine improvvisamente labilissimo fra questi opposti.

Ho la pressoché totale certezza che la serie non riuscirà a restituire le stesse identiche sensazioni del gioco, ma molto più per limiti del mezzo rispetto all’originale, che non per veri o supposti inciampi della produzione. Eppure, ricordando come proprio il gioco (oggi molti se ne dimenticano) fu odiato e rigettato da una fetta importante dell’utenza, che non voleva essere sfidata e provocata su alcune dinamiche che riteneva sacre (ma il cui sovvertimento era il cuore pulsante di quell’esperienza), credo che la serie abbia ancora molto da dire, e non dubito che riuscirà a dircelo.



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