The Handmaid’s Tale series finale – Quel che resta, oltre la fatica di Diego Castelli
Serve il bilancio definitivo di una serie per certi versi epocale, eppure segnata da una vita troppo lunga e non ancora terminata
OVVIAMENTE SPOILER SUL FINALE!
Qualche giorno fa l’Inter ha perso la finale di Champions League. E ve lo dico non perché io sia milanista (cioè, lo sono, ma non è questo il punto), bensì perché subito dopo quella sconfitta, ma in realtà pure nei giorni precedenti, si dibatteva sul giudizio da dare alla stagione dell’Inter in caso di mancata vittoria.
Il fatto di essere arrivata a un passo, a volte un passettino, dal vincere tre/quattro diversi trofei, cosa che nessun’altra squadra italiana è stata in grado di fare, è sufficiente per considerarla una buona stagione e per valutare come molto positivo l’ultimo anno dell’allenatore Simone Inzaghi alla guida della squadra?
Oppure la mancata conquista di quei trofei fa troppo male per poter parlare di bilancio positivo?
Mentre i tifosi ancora dibattono su questo tema, noi possiamo fare un ragionamento molto simile con The Handmaid’s Tale, la serie di Hulu distribuita in Italia da Tim Vision, che è arrivata alla sua stagione finale senza aver perso l’identità da “serie molto importante”, ma dando anche l’impressione di essersi trascinata troppo a lungo.
Dove sta la verità? Che posto trovare nella nostra memoria per The Handmaid’s Tale, ammesso di volerglielo trovare?

Partiamo dal fondo. Io credo che non ci siano grandissimi dubbi sul fatto che The Handmaid’s Tale abbia fatto fatica a rimanere sui livelli della prima stagione, quella che poteva contare sulla base letteraria del romanzo seminale di Margaret Atwood.
Una volta costruito un mondo insieme distopico e narrativamente affascinante, e avendo colto con grande tempismo uno spirito del tempo che ci mostrava inquietanti parallelismi fra la Gilead della fiction e la nostra realtà quotidiana, gli sceneggiatori hanno dovuto decidere come proseguire la storia oltre il libro, sapendo che l’unica strada era quella di una lotta totale di June contro la dittatura patriarcale.
E fin qui tutto bene, se non fosse che alcuni punti di forza della serie, come appunto la voglia di vendetta di June (unita al suo desiderio di ricongiungersi alla figlia rapita), o il suo rapporto con le altre ancelle, o ancora la relazione molto intricata e complessa con Serena, sono rimasti gli unici punti di forza nel corso di sei stagioni e otto anni di messa in onda.
Intendiamoci, di carne al fuoco ce n’era (e non ho citato il triangolo amoroso con Luke e Nick), ma The Handmaid’s Tale aveva potenzialmente tutte le caratteristiche delle serie “che non durano”, oggetto di un mio vecchissimo articolo di Serial Minds: ci sono serie che possono durare virtualmente per sempre, come certi gialli in cui uno o più detective si vedono recapitare nuovi casi per venti stagioni, e altre che invece hanno scritto nel loro codice genetico un finale che prima o poi deve arrivare, e più lo allontani più rischi di allungare il brodo.

Con The Handmaid’s Tale è andata esattamente così, e lo si vede da almeno due diversi elementi. In primo luogo, la necessità per la storia di basarsi sullo scontro fra June e Gilead ha fatto sì che servissero sempre nuovi motivi per convincere/costringere la protagonista a tornare nel luogo dell’orrore. Una volta, due volte, tre volte, alla quarta il meccanismo comincia a essere troppo palese per non suonare scollato dalle nostre emozioni.
E stessa cosa per il suo rapporto con Serena: che una donna perfettamente integrata dentro Gilead possa fare un percorso di crescita e redenzione tale da diventare, alla fine, un’oppositrice del regime che aveva contribuito a creare, va benissimo, e se prendiamo il percorso di Serena nelle sue svolte principali funziona e piace.
Anche in questo caso, però, il tira e molla fra lei e June è stato stiracchiato troppe volte per non sembrare, a un certo punto, abbastanza artificioso, motivato da esigenze di riempimento di palinsesti, più che da effettive esigenze dei personaggi e della storia.

Questo tipo di stanchezza non è solo narrativa, ma anche visiva e stilistica. Se è vero che The Handmaid’s Tale è stata una serie capace di farsi notare anche per ciò che appariva sullo schermo, per i giochi cromatici costruiti con i vestiti delle ancelle, e più in generale per un livello pienamente cinematografico della sua messa in scena, è altrettanto vero che alcuni suoi elementi di stile sono diventati prima dei tormentoni, e poi delle vere e proprie condanne.
L’esempio principe sono, naturalmente, i primi piani della protagonista Elisabeth Moss. Se nella prima stagione questo avvicinarsi al volto dell’ancella aveva un preciso significato poetico, di riscoperta e riaffermazione della sua identità, unita a un’esaltazione per la sua indole combattiva di fronte alla quale ci era facile applaudire, nelle ultime stagioni l’utilizzo ossessivo di questo artificio ha finito, ancora una volta, per trasformarsi in un’artificiosità, in un tipo di emozione che non percepiamo come naturale, ma come imposta, suggerita, forzatamente costruita.
E forse non è nemmeno un caso che alcuni degli episodi con più primi piani siano, a sensazione, quelli diretti dalla stessa Elisabeth Moss, che in questi ultimi anni è sembrata immergersi nella serie come se fosse una specie di missione personale, con un ardore quasi divino che, di nuovo, ha superato spesso il limite fra l’emozionante e lo stucchevole.

L’ultimo episodio, poi, è un bell’esempio di questa continua necessità di epica che rischia di diventare retorica. Ci sono boh, cinque o sei finali in questa puntata, intesi come momenti in cui la grammatica filmica (la musica incalzante, le riprese che si allargano e si allontanano) suggerisce la “fine” di qualcosa, utile a chiudere i numerosi cerchi ancora aperti, dal destino di Janine alle scelte di zia Lydia, passando per il ritorno di Emily, che non si era vista per tutta la quinta stagione.
Ancora una volta, la reiterazione di meccanismi sempre uguali genera troppa consapevolezza da parte degli spettatori, che “vedono” il gioco e, con ogni probabilità, si emozionano meno.
Tanto più che, per ironia della sorte, il vero, grande obiettivo di June non viene raggiunto. La protagonista non riesce a ricongiungersi con la figlia Hannah, per un motivo molto semplice e, di nuovo, molto pragmatico e commerciale: Hannah rimane dentro Gilead perché sarà la protagonista di The Testaments, la serie sequel di The Handmaid’s Tale, tratta dall’omonimo romanzo del 2019, sempre di Margaret Atwood.

E dunque, assodato che, almeno per mia opinione, la qualità di The Handmaid’s Tale è calata nel corso degli anni (senza per questo diventare una “brutta” serie, ma ci siamo capiti), resta da chiedersi qual è il bilancio complessivo, che posto vogliamo darle nel cuoricino.
Ecco, a differenza forse di alcuni tifosi di calcio, per i quali la vittoria è tutto e senza vittoria arriva l’oblio, io credo che con i racconti televisivi sia necessario essere più indulgenti, perfino nel caso in cui non siate arrivate/i alla fine della serie in questione.
Per sua natura, una serie tv può prendere mesi o più spesso anni delle nostre vite, accompagnarci in momenti diversissimi della nostra esistenza, e affrontare cambi di autori, cast, ambientazioni. C’è una specie di organicità, nel racconto seriale, che lo rende materia viva nel tempo, soggetta a costante evoluzione. Pretendere che una serie, per essere definita “bella”, o “importante”, debba essere impeccabile per tutte le sue stagioni, l’ho sempre trovata una pretesa irrealistica, perfino un po’ irritante, per quanto umanamente comprensibile.

In questo senso, The Handmaid’s Tale è effettivamente una delle serie più importanti degli anni Dieci, nonché uno dei casi più eclatanti di racconto di finzione che accompagna, illustra, esemplifica e iperbolizza l’evoluzione della realtà.
Guardare The Handmaid’s Tale negli anni del MeToo, osservare le storture di quel mondo patriarcale all’apparenza così inverosimile, eppure per molti versi così vicino a deformazioni del pensiero e della cultura che effettivamente potevamo e possiamo vedere nella nostra società, trasmetteva una forte emozione di straniamento, disagio, rabbia, ma anche consapevolezza e comprensione.
The Handmaid’s Tale è “servita”, ha avuto un senso, una posizione, un carattere, un’identità. Oltre che essere, per molto tempo, un pezzo di televisione ottimamente concepito.
Per questo io la voglio ricordare con affetto, e voglio anche dare una chance a The Testaments, sapendo che ci arriveremo più stanchi e più sospettosi rispetto all’inizio della serie madre.
Ma visto che ci chiedevamo se The Handmaid’s Tale meritasse la nostra memoria o meno, non ho alcun dubbio sul fatto che se la meriti. Che poi il nostro amore per la serie sia stato anche travagliato, ostacolato, forse perfino consumato, non cambia più di tanto le carte in tavola: sapere che l’amore non è sempre “vissero felici e contenti” è una roba da persone adulte, cosa che dovremmo sempre puntare a essere.