Stick – Owen Wilson e la fissa di Apple di non produrre serie brutte di Diego Castelli
La storia di un ex campione di golf diventato allenatore è la scusa per goderci una comedy pucciosa, con vibe da Ted Lasso
Il ragionamento portante di questo articolo è legato solo per caso alla specifica serie di cui parliamo oggi, perché è semplicemente emerso durante l’ultima puntata del nostro podcast Salta Intro, dove ci trovavamo a confermare una verità insieme palese, assodata, eppure sorprendente: Apple Tv+ non sa produrre serie brutte.
Il che non vuol dire che siano tutte dei capolavori, naturalmente. Qualcuna lo è, e la maggioranza no. Ma anche quelle che non sono capolavori, non scendono mai sotto un limite minimo di dignità, creatività, cura nei dettagli. Nemmeno quelle cancellate dopo una stagione o che non piacciono a me specificamente (tipo Dickinson, che non ha incontrato il mio gusto, ma che non poteva essere accusata di non provarci). Apple produce anche serie “medie”, questo sì, ma non serie “brutte”, come invece capita più spesso ai diretti concorrenti.
Questo ragionamento è tornato fuori a proposito di Stick, la serie golfistica con protagonista Owen Wilson approdata sulla piattaforma pochi giorni fa con i primi tre episodi.
Stick è un capolavoro? Forse no. Probabilmente no. E però bastano pochi episodi per volerle già un po’ bene.
L’appuntamento con le serie brutte è per la prossima volta.

Creata da Jason Keller, sceneggiatore e produttore dal curriculum soprattutto cinematografico (Machine Gun Preacher, Le Mans ’66) e alla prima vera esperienza seriale, Stick racconta la storia di un ex campione di golf (Pryce Cahill, interpretato da Wilson) che ha dovuto abbandonare la sua carriera a seguito di un brutto esaurimento nervoso in diretta televisiva.
Anni dopo il fattaccio, Pryce è stato lasciato dalla moglie, si trova incastrato in un lavoro da venditore che gli garantisce appena i soldi per tirare a campare, e organizza piccole truffe insieme al vecchio amico ed ex caddy Mitts (Marc Maron di GLOW).
L’occasione del riscatto arriva quando Pryce si imbatte in Peter (Santi Wheeler), un diciassettenne con uno swing sorprendente, un talento cristallino… e un rapporto complicato con il padre (ora assente) che gli ha fatto mollare il golf.
Prendere Peter sotto la propria ala e farlo diventare un vincente (col permesso di sua madre Elena, interpretata da Mariana Treviño) diventa per Pryce una missione che, ovviamente, farebbe bene non solo al ragazzo, ma anche a un ex campione in certa di rivincita e perché no, pure di senso della vita.

Credo ci siano pochi generi cinematografici che siano così puramente “americani”, e così pieni di buoni esempi statunitensi, come quelli relativi ai riscatti sportivi.
Che si parli dei detenuti calciatori di Fuga per la Vittoria o della sfortunata pugile di Million Dollar Baby, o che si vada a cercare nelle serie tv come Friday Night Lights o Ted Lasso (anch’essa di Apple Tv+), gli americani adorano usare lo sport come metafora della vita, come strumento ed espressione di crescita dei personaggi, come materiale da costruzione dell’epica.
In questo senso, Stick non fa eccezione, perché i due protagonisti (campione passato e campione futuro) sentono di essere in credito col destino e vogliono usare mazza e palline per aprirsi una strada verso il domani, che sia più luminosa e ricca di soddisfazioni rispetto al percorso ricco di ombre in cui hanno camminato finora.
Una strada che però, naturalmente, sarà piena di possibilità ma anche di ostacoli: il braccio educato della giovane promessa sarà messo in crisi dalla testa confusa del diciassettenne; l’entusiasmo da mentore di Pryce sarà arginato da certe sue anziane spigolosità; e via così in un continuo saliscendi di vittore e sconfitte, nella difficile ma esaltante ascesa verso la gloria.

Tutto questo classico armamentario del sport americano viene declinato in una salsa comica in cui il classico, stupito straniamento di Owen Wilson viene messo al servizio di un personaggio che deve (ri)trovare la propria strada, e che nel farlo sa essere parecchio buffo.
A Peter e sua madre viene affidata la percentuale minore di comicità, di cui invece si fanno facilmente carico altri due comprimari: da un parte la ex moglie di Pryce, Amber (Judy Greer), ma soprattutto il citato Marc Maron, semplicemente perfetto nella parte dell’alleato burbero e scontroso, profondamente disilluso e preoccupato dai progetti apparentemente folli dell’amico, che però sa farsi coinvolgere dal suo entusiasmo perché in fondo, da qualche parte, non ha ancora smarrito la scintilla dei tempi migliori.
I primi tre episodi di Stick, quelli visti prima di questa recensione, sono divertenti senza essere sguaiati, e mantengono un tono delicato che permette l’intrusione di temi più romantici e poetici senza sminuirli o farli sembrare forzati.
E poi a Owen Wilson, alla prima prova da protagonista seriale dopo la pur importante esperienza in Loki, che gli vuoi dire? Era un figo e resta un figo.

Perché allora Stick non è un capolavoro? Beh, qualcosa farà anche il paragone, conscio o meno, con Ted Lasso, che parte da un’idea più originale e può contare su un gruppo più variegato e frizzante di personaggi. Ma soprattutto perché Stick, almeno per ora, non fa nulla per allontanarsi da un solco scavato a fondo e ormai ben conosciuto, al punto che è difficile dire che queste prime puntate abbiano alcunché di “sorprendente”.
E tuttavia, un obiettivo classico della comedy, quanto meno della comedy dolce e romantica, è quello di farci provare simpatia per i protagonisti, interesse per i loro problemi, gioia per le loro vittorie. E Stick ce la fa, perché il suo gruppo di adorabili sfigati del golf non cambierà per sempre la serialità televisiva, ma sono nuovi amici con cui siamo più che pronti a intraprendere un bel viaggetto.
Perché seguire Stick: è una comedy semplice, riuscita, con buoni interpreti e una dolcezza adorabile.
Perché mollare Stick: nel grande mare dei racconti sportivi americani, non sembra poter diventare “così” memorabile.
