Mercy for None su Netflix – Nel dubbio, tu menali tutti di Diego Castelli
Facciamo una capatina in Corea per una serie action costruita come un videogioco e che fa bene proprio quella cosa lì
Nei giorni scorsi mi ha scritto Thomas, nostro lettore da tempo immemore, che pur con un messaggio abbastanza articolato voleva trasmettermi un messaggio molto semplice: non stai vedendo abbastanza serie coreane.
Sul fatto che la Corea (parliamo della Corea del Sud naturalmente, in quella del Nord c’è qualche problemino logistico in più) stia vivendo un momento d’oro della serialità ormai da qualche anno non ci sono dubbi, così come non ci sono dubbi riguardo la presenza di una nicchia magari piccola ma molto agguerrita di fan che ringraziano caldamente le piattaforme di streaming per aver fatto arrivare questo materiale nel nostro paese molto più facilmente rispetto alla classica tv generalista e pay.
A fronte di questa situazione, il fatto che su Serial Minds si parli poco di serie coreane non ha altro motivo se non la gestione del tempo della mia vita: quando è andato via il Villa avevamo già perso un occhio di riguardo verso le serie british (cosa che mi è stata rimproverata in un commento recente qui sul sito), e ora io, molto semplicemente, non riesco a stare dietro a tutto, perché ne va della mia sanità mentale.
Inoltre, non posso dirmi un esperto di serie coreane, perché per essere esperti di qualcosa bisogna averla studiata a lungo e da vicino. Forse sono un esperto di serie tv in generale, ma non specificamente di serie coreane, quindi anche solo l’idea di avvicinarmici mi fa temere di non riuscire a fornirvi un lavoro decente, anche solo in termini di connessione con altri prodotti, background dei protagonist ecc.
Però il buon Thomas mi aveva citato Mercy for None, recentissima serie coreana di Netflix, dicendo che poteva essere il mio genere, e mi sono incuriosito.
Una volta finita, che facciamo, la lasciamo lì in un angolo del cervello, morta e sepolta?
Ma no dai, parliamone.

Mercy for None (“Pietà per nessuno”) è creata da Yoo Ki-seong e racconta una storia estremamente semplice.
Nam Gi-jun (interpretato da So Ji-sub, che è attore, rapper ed ex modello di jeans, ci tenevo a dirlo) faceva il picchiatore per la malavita, salvo uscire dal giro diversi anni fa. Quando viene a sapere della morte del fratello, però, la sete di giustizia (meglio, di vendetta) lo fa riemergere dal suo esilio, per il terrore delle due bande rivali di Joowoon e Bongsan.
Sempre a causa della mia non eccellente dimestichezza con le serie coreane, mi viene difficile fare grandi paragoni con altri titoli dello stesso genere, però il fatto che l’audiovisivo di quel paese sia particolarmente interessato al tema della vendetta, non è cosa che scopriamo oggi.
E anche senza poter fare grandi ragionamenti di contesto, Mercy for None si porta dietro alcune caratteristiche specifiche che possono saltare all’occhio anche dei profani.

La prima e più evidente è che Mercy for None vuole essere una serie d’azione, di combattimenti, di sangue e coreografie violente, al punto da sacrificare consapevolmente ad esse un’ampia porzione della sua struttura narrativa e, a tratti, della sua verosimiglianza.
Di fatto, più di metà della serie è orchestrata come un videogioco, e nemmeno un videogioco recente, ma proprio un vecchio picchiaduro a scorrimento: l’eroe ha una missione chiarissima, una straordinaria abilità nel combattimento, e un esercito di nemici davanti.
Non serve altro per orchestrare il viaggio di Gi-jun, che nel giro di poche scene diventa una lunga traversata in mezzo a una selva di braccia, gambe e coltelli, con nemici sempre più numerosi e/o sempre più difficili da battere, che mettono alla prova sempre più duramente il protagonista.
Certo, bisogna anche farsi andare bene il fatto che, per esempio, sembra che in Corea nessuno possieda delle pistole, contro le quali Gi-jun avrebbe poco da opporre, visto che si limita a usare pugni, lame e corpi contundenti.
Quando poi le (poche) armi da fuoco arrivano, sono di esclusiva proprietà di quelli che, videoludicamente parlando, potremmo definire i “boss di fine livello”.
Sta a voi decidere se la cosa vi sta bene o meno, visto che la serie non fa nulla per nasconderla o sfumarla. Va anche detto che però, proprio perché così esplicita, è una scelta coerente all’interno di un mondo narrativo che evidentemente non vuole brillare per realismo.

Ed è anche per questo che la componente action di Mercy for None è il suo miglior pregio, l’elemento su cui sono stati spesi più soldi, più creatività, più impegno produttivo.
Bisognerebbe sempre specificare, perché altrimenti il nostro istinto ci porta a giudicare le cose in modo parziale, che i combattimenti per gli amanti dell’action hanno la stessa valenza dei balli negli amanti del musical: sono contesti e finalità diverse per giustificare lo stesso apprezzamento per i corpi in movimento, per l’esplorazione di una fisicità che diventa spettacolo, sorpresa, emozione, perfino significato.
Per questo un amante dell’action si rende sempre conto se sta vedendo un’azione che sia diversa dal solito, dallo standard. Forse l’ultima volta in cui abbiamo visto un’azione realmente innovativa nel cinema mainstream americano è stata con John Wick e i suoi “spari ravvicinati”, che tanto mi entusiasmarono al cinema la prima volta.
Ebbene, anche Mercy for None cerca una sua cifra. I combattimenti di massa contro un uomo solo sono abbastanza classici per il cinema orientale, non solo coreano, e la serie di Netflix non fa eccezione. Ma la peculiarità di Gi-jun è quella di questi pugni poderosi, colpi diretti e precisi che sbaragliano i nemici facendoli volare ovunque, come una specie di One Punch Man più ombroso e complessato. Sono botte coerenti con il carattere del personaggio, poco incline alle piroette e intenzionato ad andare al sodo nel minor tempo possibile. Tutto ciò che è superfluo, dal suo punto di vista, rallenta la sua corsa implacabile verso la vendetta.
Intendiamoci, non c’è nulla di apertamente fantasy e nemmeno di esplicitamente spiegato. Gi-jun è così forte “perché sì”, e i suoi pugni seminano terrore come quelli di Bud Spencer seminavano quanto meno inquietudine nei suoi nemici.
E funziona: grazie a belle coreografie e scenografie abbastanza variabili da offrire uno sfondo sempre nuovo, l’azione di Mercy for None è gustosa, esagerata, divertente, a tratti perfino entusiasmante.
Se vi piace il genere, naturalmente.

Dove invece Mercy for None fa più fatica è nel tentativo, visibile in tutta la serie ma soprattutto nella seconda parte, di raccontare per bene la faida fra le due bande, il passato dei suoi capi, gli intrighi di potere che portano alle decisioni sulla vita di questo e la morte di quell’altro.
Le parole con cui la serie costruisce la sua tela gangster sono meno efficaci, meno originali dei pugni di Gi-jun, e l’impressione è che a tratti la storia di ingarburgli più del necessario, per provare a dare uno spessore criminale più articolato allo show e rendere credibili i cambi di obiettivo da parte del protagonista.
Si tratta però di un percorso un po’ accidentato, che sembra voler sconfessare la struttura da videogioco subito dopo avercela fatta accettare, come se gli autori avessero voluto inserire più cose di quello che servivano.
Se devo cercare sfumature di recitazione e di dialogo in ambito gangster, e una storia criminal-familiare che mi faccia sentire una tensione enorme veicolata con due sguardi e tre frasi, allora preferisco ancora Mobland.
E no, non perché in Mercy for None si faccia più fatica a distinguere i nomi e le facce.
Cioè, anche per quello, ma non è il punto.

In questa breve deviazione coreana (vedremo quante altre ce ne saranno), è dunque vero che possiamo trovare già a colpo d’occhio alcune peculiarità che di solito non troviamo in occidente.
L’attenzione per la quantità d’azione nuda e cruda in rapporto al totale del minutaggio è ben superiore alla media delle serie di questa parte di mondo (con eccezioni alla Gangs of London, che resta comunque più intricata in termini di trama), e la determinazione di dare al pubblico quello che può intuire da una locandina in cui il protagonista spacca crani con mani insanguinate, è lodevole.
Poi certo, non tutto funziona allo stesso modo, e non ho improvvisamente deciso di trasferirmi serialmente in Corea del Sud (ma non era nemmeno un obiettivo da mettere sulle spalle della povera Mercy for None).
In generale, comunque, mi sono divertito, e non lo posso dire mica sempre.
Perché seguire Mercy for None: se siete amanti del cinema d’azione, qui ne fanno un culto quasi isterico.
Perché mollare Mercy for None: se il genere action non vi piace, c’è ben poco altro a cui aggrapparsi.
