Squid Game 3 – La fine (???) di un fenomeno, fra alti e bassi di Diego Castelli
Qualche riflessione su una stagione finale inevitabilmente meno impattante della prima, ma non per questo del tutto immeritevole
In queste ore, nemmeno cinque giorni dopo l’uscita della terza stagione di Squid Game su Netflix, più che della stagione in sé si sta parlando dell’ultimissima scena dell’ultimo episodio, che sembra fatta apposta per scatenare blog e social e generare titoli clickbait che neanche Chat GPT quando gli chiedi “fammi una programmazione bimestrale di post per la mia pagina dedicata alla coltura dei tuberi”.
Si impone dunque un momento di riflessione su quello che è stato un vero e proprio fenomeno di costume, incapace di mantenere la gloria degli esordi (ma era sostanzialmente impossibile), e giunto a una conclusione che comunque, pur con passo zoppicante, qualcosa da dire ce l’ha ancora.
E forse non è nemmeno l’ultimissima parola.
Da qui in poi SPOILER!

Pochi mesi fa vi avevo già spiegato come per me, in mezzo a un sacco di critiche anche feroci, fosse necessario difendere almeno in parte la seconda stagione di Squid Game, chiamata a reggere il peso di una storia che inizialmente non doveva esistere (solo il successo mondiale ha convinto la produzione a sfornare il seguito di quella che doveva essere una miniserie).
Non ho cambiato idea su quel ciclo di episodi, e penso ancora che ci fossero delle scelte inevitabili, prima fra tutte una scissione fra la storia di ribellione “esterna” al gioco, e un nuovo racconto “interno”, che rimettesse in scena le pazze e sanguinolente prove mortali ispirate ai giochi dell’infanzia.
Che quell’equilibrio non fosse sempre perfetto, e che finisse con un cliffhanger almeno in parte difettoso, mi sembra abbastanza condivisibile (anche se vorrei sapere cosa sarebbe stato dei giudizi se quegli episodi non fossero stati la “Stagione 2”, bensì la “Prima parte della seconda stagione”).
Ma io non ho cambiato impressione su fatto che fossero puntate ancora godibili e tutto sommato emozionanti.
Arrivati alla terza e “ultima” stagione (delle virgolette parliamo dopo), penso che buona parte dei discorsi di qualche mese fa possano essere ancora presi per buoni, con in più un’aggiunta tematico-filosofica importante.

Mi viene spontaneo partire dai difetti.
La terza stagione di Squid Game vive ancora il problema di un equilibrio non perfetto fra le sue due (recenti) anime narrative. Anzi, lasciatemelo dire: tutta la componente extra-gioco è di una noia mortale. Una trama che palesemente evapora nel corso della stagione, che ha ben poca rilevanza per la storia e la riflessione complessiva, e di cui perfino il protagonista sembra dimenticarsi completamente quando le cose, dentro il gioco, si fanno troppo pericolose perché lui possa ricordarsi che fuori c’è qualcuno che dovrebbe salvarlo.
Il fatto che le dinamiche interne al gioco tornino a essere più centrali e anche più appassionanti è evidentemente una buona compensazione, ma è forte l’impressione che tutta l’idea di creare una trama parallela esterna alle prove, per quanto “necessaria” dopo il finale della prima stagione, non sia riuscita a generare la stessa urgenza e lo stesso entusiasmo.
A questo, poi, si deve aggiungere il puro e semplice fatto che Squid Game, così nuova, dirompente, imprescindibile nella sua prima stagione uscita in tempo pandemico, non poteva avere la capacità di imporsi nuovamente all’attenzione collettiva con la stessa forza. Non succede nemmeno con la terza stagione, e forse non era nemmeno giusto chiederglielo.

E qui però arriviamo ai pregi.
Prima di tutto, la terza stagione di Squid Game è più tosta della seconda. Basta citare una singola linea narrativa: madre e figlio vengono messi in due diverse squadre in un gioco mortale, e lei sarà costretta a uccidere lui per proteggere una giovane madre che poi, un paio di episodi dopo, morirà a sua volta, lasciando viva solo la neonata fra le braccia del protagonista Gi-hun.
Dopo il suicidio dell’anziana signora, incapace di vivere con il delitto che pure aveva compiuto per un motivo preciso, una mia amica mi ha mandato un accorato vocale dicendo che, per lei, quelle morti in sequenza erano state strazianti come la fine di Opie in Sons of Anarchy (per chi l’ha vista e se la ricorda, detto che se l’avete vista ve la ricordate per forza).
Io non arrivo a tanto, ma è fuori di dubbio che la crudezza del gioco è ulteriormente cresciuta in questa terza stagione, regalando un paio di scene degne di essere ricordate a lungo, e portandoci all’inaspettato sacrificio del protagonista, che ci introduce al secondo pregio importante di Squid Game 3.

La prima stagione della serie era soprattutto una critica al capitalismo sfrenato: una massa di poveracci costretti a contendersi le briciole concesse da un gruppo di ricconi annoiati.
Questo tema non è certo sparito nel corso delle stagioni, e se possibile si è fatto anche più esplicito, con più scene dedicate ai miliardari mascherati che non vedono l’ora di scommettere sulla sopravvivenza di una neonata.
Tuttavia, la riflessione si è spinta più in profondità, diventando meno economica e più umana. Complice l’introduzione della regola che prevede la possibilità, per i giocatori, di uscire dal gioco dopo ogni prova con una semplice votazione, la serie sposta almeno parte della colpa sugli stessi giocatori, rapiti da un vortice di violenza e avidità che non può più essere giustificato dalla semplice povertà.
Quando i pochi giocatori rimasti sono disposti a prendere in considerazione l’idea di usare una neonata indifesa e innocente come moneta di scambio per la propria sicurezza, viene superato un confine molto preciso.
Non viene meno la riflessione più complessiva di un mondo spietato e ipercompetitivo che ci spinge alle peggio bassezze pur di emergere vincitori, ma il racconto riporta l’attenzione sugli individui, sul fatto che anche quando siamo finiti in una giostra ingestibile e molto più grande di noi, la possibilità di scendere esiste sempre, e non cogliere quella possibilità implica una responsabilità precisa.

È in questo contesto che si inserisce il sacrificio di Gi-hun. Il protagonista, all’inizio della seconda stagione, voleva smantellare lo Squid Game, come forma di protezione verso gli innocenti trascinati al suo interno. Alla fine della terza, senza che questo spostamento sia esplicitamente verbalizzato, Gi-hun ha amaramente compreso che nemmeno i suoi compagni di sventura meritano la salvezza, perché ormai troppo immersi nello stesso, avido meccanismo da cui li voleva proteggere.
La bambina che ha tra le braccia, per stessa ammissione del creatore della serie, Hwang Dong-hyuk, è un simbolo di speranza, una scintilla ancora pura di umanità da proteggere a ogni costo. E non è un caso che sia, per l’appunto, una neonata: solo un essere umano “nuovo”, non ancora influenzato dalle brutture del mondo, può sperare di prendere un altro percorso, verso una vita più giusta.
La riflessione, dunque, è più fosca perché mostra l’umanità adulta come sostanzialmente perduta. Allo stesso tempo, garantisce la possibilità di una speranza e contempla l’esistenza di eccezioni, uomini e donne (come l’anziana signora che uccide il figlio) disposti a sacrificare sé stessi pur di proteggere quei pochi frammenti di vera umanità che ancora esistono nel mondo.
Sta a noi, a quel punto, scegliere che tipo di persone vogliamo essere, se quelle capaci di uccidere una bambina per salvarsi, o piuttosto disposte a perdersi perché quella stessa bambina sopravviva.

La storia potrebbe finire qui, come già poteva terminare alla fine della prima stagione. Il discorso è stato ampliato, non senza qualche goffaggine, ma è riuscito a offrire qualche riflessione aggiuntiva e meritevole. Bon, grazie, basta.
E invece no, perché arriva Cate Blanchett.
Alla fine della terza stagione, Front-Man, uno che aveva mostrato di provare profonda sfiducia nei confronti dell’umanità, viene effettivamente toccato dal sacrificio di Gi-hun, che aveva appena lasciato questo mondo con una frase criptica che è già cult (“Noi non siamo cavalli. Siamo esseri umani. Gli esseri umani sono…”). Potevamo pensare che l’organizzazione stesse implodendo come conseguenza di un sacrificio più che di una sconfitta militare, se non fosse che poi, in una città americana, lo stesso Front-Man vede una reclutatrice alle prese col solito giochetto iniziale, quello utile a irretire nuovi giocatori. Ed è appunto lei, sua maestà Cate Blanchett.
Un piccolo segreto molto ben custodito, che offre una prima conferma a un rumor circolato già l’autunno scorso, relativo a una versione hollywoodiana di Squid Game diretta da David Fincher. Nelle ultime ore prima che finissi di scrivere questo articolo, nuovi dettagli si sono aggiunti a queste indiscrezioni, notizie incontrollate che parlano di una fase di riprese prevista per il mese di dicembre di quest’anno.
Mancano ancora notizie ufficialissime, ma una cosa ormai è chiara: una versione americana di Squid Game non sarebbe un semplice remake, come spesso accaduto in questi casi, ma una vera e propria espansione di quell’universo, che non avrebbe l’obbligo di contemplare un protagonista ormai morto, ma che sarebbe certamente più interessante di una semplice copia carbone (resa difficile, peraltro, proprio dalla fama mondiale dell’originale, non certo un oscuro prodottino scovato in un angolo della televisione coreana).
Staremo a vedere. Per parte mia, credo si possa dire che il viaggio di Squid Game, per quanto a tratti accidentato, abbia saputo darci qualcosa di genuino, di interessante, di appassionante, a livello narrativo e soprattutto a livello visivo, imponendo uno stile e un’immagine diventati subito cult.
Del domani hollywoodiano non c’è certezza, e ne riparleremo eventualmente a tempo debito. Ma nel complesso, contando pregi e difetti, spunti e inciampi, io agli amici coreani dico: missione compiuta.