3 Luglio 2025

The Bear quarta stagione – Dal buio alla luce di Diego Castelli

Al quarto anno, The Bear racconta gli stessi luoghi e gli stessi personaggi, ma con un importante cambio di prospettiva

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Un annetto fa scrissi una recensione della terza stagione di The Bear che si incastrava fra l’uscita americana e quella italiana, separate da un intervallo di due mesi (con pubblicazione sul Disney+ nostrano praticamente a ferragosto). Quell’intervallo, unito alla scarsa voglia di aspettare per settimane, mi convinse a scrivere una recensione priva di spoiler, magari con l’idea di scriverne un’altra successivamente, cosa puntualmente non avvenuta.

Stavolta ci è andata meglio: la quarta stagione di The Bear è arrivata nel nostro paese in contemporanea con l’America, e possiamo parlarne liberi da costrizioni più o meno autoimposte.
Una cosa particolarmente importante per una stagione che, pur raccontando gli stessi personaggi e gli stessi luoghi, sposta il fuoco della narrazione, o meglio la sua direzione, verso obiettivi un po’ diversi dal solito.
Quindi da qui in poi…. spoiler!

Vale la pena dirsi subito che è sempre difficile scrivere una recensione che sia in qualche modo “completa” di una serie come The Bear, perché a dispetto dei suoi episodi corti è sempre pienissima di eventi, storie, personaggi, sviluppi. Che poi, a dirla tutta, queste vicende non sono nemmeno particolarmente intrecciate, perché l’impressione è quella di una scrittura tutto sommato lineare delle storie dei singoli protagonisti, che poi vengono affiancate nel comune spazio della cucina, in cui trovano momenti di contatto e reciproca validazione, ma senza un mescolamento eccessivo.

È che sono proprio tante, queste storie, e ognuna di esse ci parrebbe meritevole di un articolo a parte.
Potremmo stare qui a lungo a parlare di Tina e della sua tenace ossessione per i tempi di preparazione della pasta. Per non parlare del percorso di Marcus, che da ragazzotto senza arte né parte diventa un vero esperto di dolci con tanto di certificazione finale della stampa, in compagnia di un redivivo chef Luca con cui costruisce un sodalizio scalda-cuore nel corso di tutta la stagione. E non vuoi dare un po’ di spazio a Ebraheim e i Faks, determinati a espandere di un pochino il business dei panini, facendosi aiutare, in quella che è una delle principali linee comiche della stagione, dall’esperienza del consulente Albert Schnurr (adorabilmente interpretato dal mitico Rob Reiner, attore ma soprattutto regista di Harry, Ti Presento Sally, Codice D’Onore e diversi altri cult)?

Per arrivare, in questo rapidissimo excursus sui personaggi “secondari” (si notino le virgolette), all’ansia di Richie per il rapporto con la figlia, che lui sente minacciato dalla presenza del pur adorabile patrigno Frank, e che monta un po’ di tensione fino alla puntata più lunga e più pucciosa della stagione, quella del matrimonio (ma ci torniamo).

Sapendo di avere a che fare con un intreccio abbastanza ampio di storie (e non siamo nemmeno arrivati ai due personaggi principali), il creatore della serie Christopher Storer, sceneggiatore e regista di tutti gli episodi della stagione, sapeva di dover mettere un po’ di ordine, dare una direzione, stabilire un punto di partenza e uno di arrivo.

Lo fa attraverso l’uso di un semplicissimo trucco, un conto alla rovescia stabilito da zio Jimmy, che dice a Carmy e compagni “avete due mesi, poi chiudiamo tutto perché questo ristorante è costantemente in perdita”. Quel conto alla rovescia, mostrato in continuazione insieme alla linea del grafico del bilancio che unisce come un filo prima rosso e poi nero i destini di tutti i personaggi, è il metronomo della stagione, la cruda realtà a cui bisogna sempre tornare, il monito che grava sulla testa di protagonisti alla spasmodica ricerca della stella michelin, che avrebbe il potere salvifico di preservare il loro piccolo mondo.

E però, per l’appunto, è un trucco, una magia di scena buona tenerci aggrappati alla trama, che diventa via via meno importante e che sembra quasi finire a tarallucci e vino, con la raggiunta di un precario pareggio e qualche speranza di introito aggiuntivo da parte dei panini.
La partita vera, in realtà, si gioca altrove, e con una traiettoria almeno in parte sorprendente.

Parliamo ovviamente di Carmy, e in parte di Sydney. Se dovessimo guardare al nucleo fondante di The Bear, che spesso ci sembra una serie così fresca e originale, troveremmo un concetto che è in realtà molto comune a tante narrazioni in tanti formati diversi: spiamo la vita di un genio pieno di problemi.

Una larga parte dell’interesse per The Bear si basa sull’unione fra l’abilità di Carmy in cucina e la sua contemporanea, totale fallibilità nelle relazioni e nella vita personale in generale. Una fallibilità che parte da molto lontano, da una famiglia oltremodo disfunzionale e da un pessimo rapporto con la madre, poi amplificato dalla tragedia del suicidio del fratello Michael.

Considerando che Carmy è il perno attorno a cui ruota tutta la narrazione, perché suo è il sogno di un ristorante stellato, sua l’organizzazione della cucina, suo il tentativo di costruire qualcosa di significativo nonostante la tendenza (auto)distruttiva, possiamo dire che The Bear è prima di tutto il racconto di un uomo con un talento e con un sogno, che però egli stesso continua a sabotare per via di traumi e problemi che non riesce a risolvere.
Ebbene, da questo punto di vista la quarta stagione ha rappresentato un cambio di passo.

Già le stagioni scorse erano state un insieme di vittorie e sconfitte, progressi e regressioni. Carmy era capace di fare un passo avanti e due indietro anche all’interno della stessa puntata. Poi dei risultati erano arrivati, e altri protagonisti erano riusciti a compiere dei balzi più importanti (vedasi Richie e la sua formazione come responsabile di sala), ma Carmy rischiava di essere sempre lo stesso, quello che rimaneva chiuso nel frigo e inveiva contro tutti, quello che si trovava di fronte i vecchi mentori tossici non riuscendo quasi a spiccicare parola, quello che, volente o nolente, era sempre in mezzo alle urla più belluine della cucina.

Stavolta qualcosa cambia. Qualche avvisaglia si era già avuta nella terza stagione, ma è solo quest’anno che Carmy intraprende un vero percorso di crescita, dove con “vero” intendo un percorso che preveda non solo propositi, ma anche atti concreti, decisioni specifiche.
Un percorso che, sebbene parta effettivamente più indietro, trova un inizio simbolico nella seconda puntata stagionale, quando Natalie, sorella di Carmy, gli trasmette un concetto semplice ma dirompente: se anche hai amato qualcosa (intende la cucina), questo non significa che tu debba amarla per sempre. Più importante dell’amare per sempre, è la capacità stessa di amare.
Boom.

Da lì in poi vediamo Carmy compiere azioni che in passato non avrebbe compiuto, come delegare sempre più responsabilità a Sydney (che infatti ne è stranita quanto noi), accettare sempre più proposte altrui, prodigarsi per un ascolto più vivo e interessato nei confronti dei suoi sottoposti. In questo discorso rientra la bella scena con Claire, che Carmy non vedeva dalla sera del frigo e a cui rivolge un discorso molto consapevole, quello di una persona che riconosce le proprie difficoltà emotive, che all’epoca avevano comportato una fuga e che adesso invece vuole affrontare sul serio.

Memori di quel primo dialogo con Natalie, non saremo dunque “così” stupiti nel finale, quando una puntata che è praticamente tutta un dialogo fra Carmy, Sydney e Richie, svela che il protagonista vuole lasciare la cucina, per sempre o almeno temporaneamente, perché si rende conto che la cucina, che lui per lungo tempo ha considerato una soluzione, è invece parte del problema, o quanto meno un suo sintomo.

La crescita di Carmy la cogliamo proprio da questo cambio di prospettiva. In questa stagione vediamo in flashback il momento in cui Carmy aveva detto a Michael di voler aprire un ristorante, con l’idea pura e semplice di far felici le persone. Poi ci viene fatto ricordare il momento in cui, imprigionato nel frigo, Carmy aveva accusato Claire di distrarlo da quella che, partita come una missione gioiosa, era diventata un’ossessione. E poi vediamo un percorso di progressiva emancipazione: il menu fisso che sostituisce l’ansia da prestazione del menu sempre cangiante, le maggiori responsabilità date a Sydney, infine la consapevolezza, da parte del protagonista, di aver usato la cucina come un cerotto sopra una ferita che avrebbe avuto bisogno di ben altre attenzioni.

Il risultato è un uomo che si rende conto di aver sbagliato approccio per troppi anni, ma che non può semplicemente cambiare la sua testa e guardare quello che ha da una prospettiva più positiva. No, serve prima levare il cerotto, e al massimo rimetterlo solo dopo un intervento più specifico. Liberatosi almeno in parte del peso dei suoi traumi, Carmy scopre un vuoto che però non può essere riempito dalla cucina. Tutto ciò che lui è, è legato alla cucina, ma ha bisogno che ci sia qualcosa di più, e solo lasciando il ristorante può trovarlo.

Questo percorso di crescita di Carmy riverbera su tutta la stagione, perché per tutti c’è modo di fare passi avanti che siano molto superiori a qualunque eventuale passo indietro. Sydney viene messa alla prova dall’infarto del padre, ma ne esce rafforzata proprio nella consapevolezza, come le dice Claire, che preoccuparsi per le persone che si amano non è di per sé un male, e anche lei può evitare di trasformare la cucina nell’unica fonte di soddisfazione e validazione. Tina alla fine riesce a migliorare, Marcus ottiene i suoi riconoscimenti, Richie fa pace con la sua paura di essere soppiantato, scoprendo che anche il suo “rivale” è spaventato quanto lui, ed entrambi, in modi diversi, possono provare a rilassarsi un po’.

Qui bisognerebbe spendere due parole per l’episodio del matrimonio, il più lungo della stagione, che è, di nuovo, un grande luogo di risoluzione di conflitti e di concetti rimarcati (come quando Lee, interpretato da Bob Odenkirk, dice a Carmy che a volte per rompere gli schemi bisogna… rompere gli schemi, di fatto dicendogli con altre parole la stessa cosa che gli ha detto Natalie).
In quella lunga scena sotto il tavolo, dove la priorità è non traumatizzare una bambina che ha solo paura di ballare, i nostri riscoprono il senso di prospettive più semplici sulla vita, di una comunità basata su valori e sentimenti condivisi, al di là di litigi e personalismi che, in quel momento, vengono vietati dalla stessa presenza della fanciulla in lacrime.

È probabilmente l’episodio/momento più dolce della stagione, che fa il paio con la scena della finta nevicata organizzata da Richie per soddisfare una cliente (una scena scaldacuore in sé e per sé, ma anche utile ai fini della trama perché osservata da un giornalista in grado di cambiare le sorti mediatiche del ristorante). Quello è un momento che ci mostra personaggi che non hanno mai dimenticato l’importanza di fare quel mestiere per i motivi giusti, cosa che invece è sfuggita di mente a Carmy.

E poi c’è la madre, una sontuosa Jamie Lee Curtis che, in perfetta coerenza con il resto dei personaggi, mette in scena il percorso di crescita più dichiarato, più esplicitamente psicologico. Nel suo straziante dialogo con Carmy (i due potrebbero essersi guadagnati un altro Emmy solo con quella scena), sua madre fa ammenda per tutti gli errori del passato, mostrando una grande capacità di introspezione, pur nelle sue modalità comunicative un po’ sopra le righe, e convincendo il figlio al punto da guadagnarsi un pasto cucinato da lui.

La donna è forse il simbolo più importante del cambiamento di questa stagione, perché è il personaggio che più di altri (per età, per tempo sullo schermo) paeva destinato a non cambiare mai, costringendo Carmy a venire semplicemente a patti con lei, e che invece mostra che non c’è età giusta o sbagliata per intraprendere un percorso verso l’evoluzione.

E se finora abbiamo parlato di scrittura, come si tende sempre a fare con le serie tv, non possiamo comunque tralasciare l’aspetto visivo di The Bear.
Abbiamo già citato la linea del budget e il conto alla rovescia, ma Storer riempie tutta la stagione di piccoli e grandi tormentoni visivi, che da soli tengono saldo il filo della narrazione e mostrano i progressi e il lavoro dei personaggi.

Cronometri che misurano le performance; montaggi rapidissimi a mostrare i gesti ripetuti e standardizzati di cucina e servizio; continue pentole piene di salse che sobbollono (su tutte il sugo durante il flashback con Carmy e Michael), a simboleggiare l’incessante lavorio delle menti dei protagonisti; scene oniriche in blu e viola, in cui la quotidianità del ristorante si diluisce in riflessioni filosofiche e sogni di grandezza.
E poi la volontà di Storer di stare addosso ai suoi personaggi, con inquadrature sempre molto ravvicinate in cui ad attori e attrici viene chiesto un impegno assoluto nella gestione delle espressioni e delle emozioni, cuore pulsante di una serie come The Bear.

Insomma, la costruzione di una sinfonia che punti ai suoi obiettivi di senso tenendo dentro tutto: tutte le storie, tutte le parole, tutte le immagini, tutti i ritmi di una stagione precisissima, forse ancora una volta priva degli episodi-capolavoro della seconda, ma comunque superiore alla terza proprio perché più capace di offrire qualcosa di nuovo.

In chiusura, proprio questo aspetto non dovrebbe passare sotto silenzio. A conti fatti, la quarta stagione i The Bear è una stagione “felice”. Non nel senso che vada tutto bene, che non ci siano problemi, o che non ce ne saranno in futuro (un futuro garantito dal rinnovo per la quinta stagione).

Piuttosto, nel senso di una serie che ha toccato molti momenti di buio nel suo passato, e che quest’anno invece ha puntato verso la luce. Luce di “cose belle” che succedono ai personaggi, ma soprattutto luce nel senso di chiarezza, di illuminazione, di comprensione. Mai come quest’anno i protagonisti di The Bear hanno compreso cose importanti di loro stessi, e per una serie così fondata sulla psicologia (ben più che sulla cucina), questo non può che essere positivo.

Strano no? Che una stagione di The Bear possa essere coinvolgente e appassionante anche quando i drammi si risolvono, e non solo quanto aumentano. Forse c’è anche qualcosa da imparare sulla vita, in questo percorso di linee rosse che calano per poi risalire. Forse c’è sempre spazio per comprendere e comprendersi meglio, e per trovare vie inaspettate alla felicità. E forse, dopo quattro anni, The Bear è riuscita a diventare più o meno una comedy, più di quando vinceva gli Emmy e i Golden Globes in una categoria che non sembrava tanto la sua.
Com’è, come non è, non vediamo l’ora della quinta.



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