13 Gennaio 2016 3 commenti

Transparent seconda stagione – Come prima, più di prima di Diego Castelli

La serie Amazon conferma quanto di buono fatto al primo giro

Copertina, Olimpo, On Air

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Io un po’ continuo a detestarle ste serie che escono tutte in una volta. Così adesso mi trovo a parlare della seconda stagione di Transparent dopo aver finito di vederla, e mi sembra di scrivere una cosa fuori dal tempo, come se fossi in mostruoso ritardo o che so io. Paletti, ho bisogno di paletti.
Comunque è un “detestare” bonario, evidentemente, perché c’è ben poco motivo per voler male a Transparent. Anzi, dopo una prima stagione sorprendente, una delle migliori novità dello scorso anno, la seconda riesce a inserirsi perfettamente nello stesso solco, approfondento alcuni temi già presenti all’inizio, e presentando situazioni e sensazioni tutte nuove.

A novembre 2014 (se volete rileggere l’articolo lo trovate qui) parlavamo della capacità di Transparent di non fermarsi alla superficie di un banale scontro “amici dei transgender vs omofobi”, addentrandosi invece nelle dinamiche di una famiglia che, sotto uno strato di ostentato politically correct, cova il fuoco di contraddizioni che hanno matrice lontana e profonda.

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Questo discorso prosegue anche con la seconda stagione: l’abbandono del matrimonio da parte di Sarah (un matrimonio gay tutto in bianco, apparentemente uguale agli altri, e invece pieno di problemi), la continua ricerca di identità da parte di Ali, la paternità improvvisa di Josh, sono tutti elementi che portano avanti una precisa ricerca di se stessi da parte dei personaggi. Dopo aver visto la propria vita sconquassata dalla rivelazione del padre, i figli di Mort continuano a lottare per cercare un proprio posto nel mondo, avendo perso quello “normale” e inquadrato che i loro genitori apparentemente tradizionali gli avevano fornito, salvo poi strapparglielo via.

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In questo discorso Jill Soloway inserisce anche una componente di eredità e perfino di epigenetica, come la stessa autrice ha sottolineato in più di una intervista. L’inserimento dei flashback nella Berlino degli anni Trenta (che di fatto raccontano le vicende della madre e dello zio transgender di Maura), aggiungono una sfumatura quasi ancestrale alle vicende dei nostri protagonisti. Lungi dall’essere esclusive del nostro tempo presente, le difficoltà relative alla definizione del proprio genere e della propria identità vengono fatte risalire a radici molto più radicate nel terreno della Storia, creando un vincolo diretto fra Mort/Maura (e i figli) e i suoi più vicini antenati. Il discorso assume dunque un tono più ampio, che va oltre il singolo essere umano e abbraccia intere generazioni, trovatesi a lottare contro problemi simili.
In più, si fa interessante anche la rappresentazione dei nazisti che fanno irruzione nel Magnus Hirschfeld Institute. In quel caso, vedendo quelle svastiche sul braccio, siamo naturalmente portati a distinguere fra buoni e cattivi, creando un parallelismo con la situazione attuale, dove le svastiche sono (quasi) sparite, ma le discriminazioni no: si sono fatte solo più sottili, più sussurrate, ma non meno decisive.

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Ma Transparent non è solo la famiglia, non sono solo i figli. Ovviamente, Trasparent è soprattutto la vicenda di Maura, che è lungi dall’essere conclusa. Se la prima stagione sembrava tematizzare la difficoltà del coming out e le mosse immediatamente successive, il secondo ciclo di episodi mostra come questo sforzo comunicativo non sia affatto la fine dei problemi, ma possa addirittura esserne l’inizio.
Il coming out non ha risolto i problemi identitari di Maura, che invece si trova ancora nella difficoltà di capire quale sia davvero il suo posto. Ancora legata alla propria natura di padre e perfino di marito (splendidamente malinconiche le scene di vita tenacemente familiare con la moglie), e in qualche modo confusa dalla sua attrazione per il sesso femminile, Maura è costretta a proseguire il suo viaggio alla ricerca di se stessa, un viaggio mentale ma anche fisico, che impone la conoscenza con nuove persone, la frequentazione di nuovi posti, l’esplorazione di luoghi e situazioni ben lontani dalla propria comfort zone, in cui la protagonista cerca di sondare, quasi alla cieca, le sue nuove possibilità.

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Il punto focale è chiaramente quella specie di festival in cui Maura (uomo travestito che si infiltra in un convegno di lesbiche) scopre di poter essere discriminata anche da chi considera “diverso come lei”. La serie sembra dirci che la meschinità umana non conosce confini, non ci sono linee di demarcazione chiare, e bisogna rinunciare alla speranza di trovare risposte certe fuori da sé. Naturale quindi che Maura riesca a trovare conforto fra le braccia di un’altra “femmina danneggiata”, un’Angelica Houston nei panni di una donna a cui hanno asportato entrambi i seni: un uomo non più uomo, e una donna non più vera donna, che insieme trovano qualche momento di serenità e lo spazio per riflettere un altro po’ sulla propria condizione.

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Il viaggio non è ancora finito. Non si può risolvere in pochi mesi ciò che, ce l’hanno fatto vedere i flashback, si trascina da generazioni. E non è nemmeno detto che esista una vera luce in fondo al tunnel, un tunnel inserito in una società che vive di etichette e costringe i suoi stessi membri a soffrire la mancanza di un’etichetta da poter esibire in modo chiaro e definito. Allo stesso tempo, anche se forse non ha fine, il percorso e il movimento sono indispensabili, perché non c’è nulla di più doloroso del restare immobili.



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