22 Novembre 2016 15 commenti

The Young Pope: 10 episodi dopo di Andrea Palla

Tiriamo le somme sul Vaticano “desnudo” di Sorrentino, tra intrighi e humour

Copertina, Olimpo, On Air

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C’erano molte incertezze circa l’effettivo approccio che la serie di Sorrentino avrebbe potuto avere. Nessun dubbio sulla qualità, garantita fin dal principio dalla squadra produttiva, dal cast, e dal budget impiegato. Ma il grandissimo punto di domanda riguardava piuttosto la strada che il giovane Papa interpretato da Jude Law avrebbe potuto percorrere: un telefilm sulla vita di un pontefice giovane, sui meccanismi vaticani, avrebbe potuto facilmente annoiare dopo poche puntate ed esaurire presto nell’approccio biografico ogni suo potere seduttivo.

Le paure dell’esordio si sono però dissolte fin dalla puntata pilota: The young pope ha dimostrato da subito un carattere e un’originalità devastanti, con il tipico marchio di fabbrica sorrentiniano che carica i personaggi di elementi netti, distintivi, a tratti surreali, curandone sia i dettagli di personalità che quelli di dialogo, in un intreccio dove la descrizione dei fatti cede piuttosto il passo alla rappresentazione del pensiero, in una sorta di assurda messa in scena teatrale. Proprio l’elemento dell’assurdo è risultato la parte più gradevole del pastiche del regista nostrano: l’immanenza della Chiesa, contrapposta alla trascendenza della filosofia che i suoi adepti vorrebbero diffondere, è stato lo spunto perfetto per alzare i toni e fornire allo spettatore uno spettacolo di contraddizione, un’esplosione di disordine interiore contrapposto all’estetica dell’ordine, resa da una fotografia simmetrica, puntigliosa, e da movimenti di macchina sinuosi che si sono accordati alla danza di musica, silenzi, parole.

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Il Papa di Sorrentino è l’esatto opposto dell’immagine rassicurante che hanno i fedeli di questa figura. Piuttosto che elemento di unione, tramite attraverso il quale Dio parla agli uomini, egli incarna un tragicomico elemento di disunione, l’anello imperfetto nell’apparente catena perfetta della Chiesa, il soggetto eletto per rilanciare una religione stanca e appesantita, che alla fine però si rivela il più vecchio e conservatore tra i suoi pastori. Scelto “dallo Spirito Santo” secondo incomprensibili meccanismi divini, come ammesso da uno sconsolato Cardinal Voiello messo alle strette e costretto a smascherare i giochi di potere interni al conclave, l’operato di Papa Pio XIII si rivela da subito singolare, dispotico, completamente avulso sia ai meccanismi mafiosi dei porporati, sia alle logiche caritatevoli della morale cristiana. Questo Papa ha uno scopo personale: distruggere la Chiesa dalle fondamenta, scardinare il rapporto dei fedeli con la religione, fare tabula rasa di ogni apertura e modernità, e riapplicare le logiche medievali che a suo dire avvicinerebbero davvero gli uomini a Dio, in una sorta di adorazione morbosa e di un amore unico e totalizzante, mai aperto al compromesso.

Lenny Belardo è antisociale, odia qualsiasi schema di marketing che definisca la chiesa come una struttura politica, intesse rapporti contradditori con tutti gli elementi del suo entourage, ivi comprese quelle persone che l’hanno cresciuto, educato, e spinto affinché divenisse il primo Papa americano della storia, nonché il più giovane che abbia mai guidato la Chiesa. Pretende che gli si porti rispetto e poco ne dimostra verso qualunque altra figura. Ha modi da despota e da leader, salvo poi mostrare una profonda fragilità quando ricorda i genitori che l’hanno abbandonato da piccolo, trauma che sembra essere la causa prima della sua profonda infelicità verso il mondo e verso l’umanità, e unico tallone d’Achille in una personalità altrimenti inattaccabile. Il risultato di questa sua distanza emotiva dal mondo si traduce nei dialoghi taglienti che sfoggia con i personaggi che lo contornano, primo fra tutti quel Voiello che è il suo unico vero antagonista in termini di furbizia, ma finisce sempre per dover soccombere di fronte all’astuzia di un Pio che ogni volta dimostra di essere un passo avanti, come il più scaltro e diabolico dei comandanti. E che, sul finale di stagione, rinuncia al ricatto e finisce per cedere a sua volta al fascino fragile della sua guida.

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Sorrentino ha costruito una serie drammatica che da principio è anche una serie politica e un crime, ma che si veste anche abbondantemente dei tratti di una comedy, e che per la maggior parte del tempo risulta talmente surreale da ricordare persino i meccanismi propri delle serie di fantascienza distopica. Inquadrare The young pope negli schemi rigidi di un genere è un esercizio pressoché impossibile se non del tutto inutile, anche a causa del fatto che il regista ha amato sperimentare di episodio in episodio registri e stili differenti, sfruttando elementi spaziali, cromatici, musicali, ed utilizzando tecniche visive proprie del cinema d’autore che lui padroneggia con maestria. La cosa che forse ha stupito i più, però, è che nella serie di Sorrentino c’è stato poco spazio alla noia: i lunghi dialoghi intervallati da silenzi non sono infatti bastati a scardinare nello spettatore una sensazione di benessere, nell’attesa del successivo momento ironico che avrebbe spezzato la tensione e contribuito a sostenere, sempre e comunque, la scaltrezza del protagonista, contrapposta all’immobile ignoranza dei suoi avversari. Come fare il tifo per uno stronzo, senza annoiarsi mai.

Ne avranno da ridire i cattolici, che sono stati costretti allo scempio di uno spettacolo infarcito di rimandi sessuali, di allusioni, di precise attacchi a un sistema ecclesiastico marcio e denso di segreti e malizie. Sorrentino non teme le accuse, e ha caricato senza filtri: suore e preti che si scambiano teneri sguardi languidi, preti alcolisti, omosessuali che intessono rapporti con i novizi. Il suo però, a conti fatti, non è un j’accuse finalizzato allo scandalo, quanto piuttosto una scelta stilistica precisa che si rivela un atto d’amore verso l’estetica e la bellezza, verso la profondità di carattere e la fragilità umana, come se gli inconfessabili intrecci che si consumano nelle stanze vaticane non debbano spaventare, ma ricordarci piuttosto la singolarità e la commovente imperfezione dell’essere umano.

Una prima stagione promossa a pieni voti, partita con le premesse di intrighi e ritorsioni e culminata verso un ben più rassicurante finale di poesia e amore. Da queste parti ci siamo reinnamorati della Chiesa, esattamente come i cattolici della fiction si reinnamorano di Lenny e della sua rinascita, una volta che si è liberato del peso del suo passato irrisolto. L’ultima scena rilancia la tensione e può tanto essere la conclusione di una vita piena o l’aggancio per un nuovo, travolgente inizio; quello che, speriamo, ci verrà regalato nella seconda stagione già in cantiere.



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