20 Marzo 2019 7 commenti

Love, Death & Robots – Tripudi visivi su sceneggiature banali di Diego Castelli

L’antologia animata i Tim Miller e David Fincher stupisce per la sua tecnica, ma troppe storielle non sorprendono

Copertina, Pilot

Love Death Robots (12)

In questi giorni si sta parlando moltissimo di Love, Death & Robots, l’antologia di corti animati firmata David Fincher e Tim Miller, con cui Netflix ha messo un altro mattoncino nella sua ormai corposa storia di sperimentazione e allargamento su tutti i generi dell’universo conosciuto.
A supportare l’immediata fama dello show, oltre al carisma dei suoi produttori e a un impatto visivo innegabile, che riprendiamo fra poco, c’era anche un bisogno inespresso, un appetito che Love, Death & Robots ha stuzzicato quando nemmeno sapevamo di averlo. Parliamo del bisogno di un’animazione smaccatamente adulta, di stampo occidentale, che uscisse dalla comicità dei Simpson e dei Family Guy. Al giorno d’oggi, se uno vuole vedere animazione mainstream per adulti, e non ama lo stile visivo e narrativo orientale, può guardare quasi solo ai videogiochi, che sono però un mondo a parte pieno di fan appassionati, ma che pone anche una barriera all’ingresso non indifferente per chi non ha mai giocato o ha smesso da anni.
In questo senso, la serie di Fincher e soci ha offerto una specie di boccata d’aria fresca, di pulsazione visiva e sonora che ha attratto spettatori assai diversi, accomunati dalla voglia di nuovo. Una voglia soddisfatta alla grande almeno per metà, con qualcosa di importante lasciato fuori.

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I maggiori pregi – o forse tutti i pregi – di Love, Death & Robots vanno cercati nella sua componente visiva. Animati da team diversi, provenienti da vari paesi, i cortometraggi di questa prima stagione sono, a tratti, semplicemente stupefacenti. Che siano improntati a un realismo molto spinto (Lucky 13, The Secret War, Beyon the Aquila Rift, Helping Hand), a una rielaborazione di cartoni 3D solitamente pensati per famiglie (Three Robots, When The Yogurt Took Over, Alternate Histories, The Dump), o a un’animazione apparentemente meno computerizzata e più anni Novanta (Sucker of Souls, Good Hunting, Zima Blue, Blind Spot), tutti i corti mostrano una ricerca stilistica encomiabile, un vero spettacolo per gli occhi. In molti casi è uno stupore proprio in termini produttivi, come se non fossimo davvero coscienti del fatto che simili meraviglie (pensiamo al realismo di certi volti) fossero possibili in ambito televisivo, sempre ammesso e non concesso che Netflix possa essere considerata televisione, in rapporto ai budget del grande schermo.

Fra orge di sangue, arti mozzati e sesso vario, non tutto funziona sempre alla perfezione, sia in termini meramente tecnici (come il sempre difficile contatti fra corpi nudi e labbra in Aquila Rift), sia ideativi, con alcuni corti “mostruosi” che si assomigliano più del lecito. Ma nel complesso le 18 storielle di Love, Death and Robots riescono a dare un sapore diverso al classico binge watching, perché ogni dieci, quindici minuti mettono lo spettatore di fronte alla prospettiva di un cambio radicale di tono e di immagine, in una girandola che dura complessivamente poche ore, ma che lascia piacevolmente boccheggianti.
Da questo punto di vista, il migliore per me è il terzo episodio, The Witness, che riesce a sposare una qualità quasi pittorica dei suoi protagonisti, a un’ambientazione straordinariamente realistica e a una gestione dei corpi che sbalordisce per la precisione con cui sono riprodotti i veri movimenti umani.

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Dove Love, Death & Robots fallisce, o per lo meno non stupisce, è nella sua scrittura. Chi si aspettava una sorta di Black Mirror d’animazione rimane infatti deluso, perché solo a tratti (e pure pochi) l’antologia riesce a rispondere alla seconda, fondamentale esigenza di chi decide di guardare la fantascienza: non solo vedere mondi fantastici e creature straordinarie, ma anche stupirsi di fronte a realtà sorprendenti, futuri stranianti e idee fulminanti.
Legata a un immaginario di genere molto preciso, Love, Death & Robots non riesce quasi mai a schiodarsi da un’interpretazione molto derivativa di quel genere, finendo col riproporre scenari ben poco innovativi: i mostri insettoidi che attaccano in massa piccoli gruppi umani; gli equipaggi di navi spaziali perse nel cosmo; soldati mutaforma che diventano lupi mannari.

Intendiamoci, non c’è niente di male a riproporre formule e immaginari che hanno sempre funzionato. Ormai è difficile inventarsi qualcosa di “davvero” nuovo, figurarsi farlo per 18 volte, ed è legittima l’aspirazione di mostrare elementi della tradizione nella veste pompata di uno stile e una tecnologia all’avanguardia. Allo stesso tempo, però, per molti corti la trama è così esile, il pretesto così semplice, che in pratica siamo in presenza di una tech demo, uno sfoggio di tecnologia che, nella sua brevità, prova a nascondere anche la sua inconsistenza. Ma la fantascienza ha anche bisogno del puro stupore narrativo, della capacità di mettere addosso allo spettatore una qualche forma di inquietudine, o di slancio verso l’ignoto, o di timore reverenziale verso temi e scenari dal sapore cosmico. Con Love, Death & Robots questo succede molto poco, e molti dei temi sfiorati dalla serie (l’integrazione uomo-macchina, i viaggi spaziali, la tutela dell’ambiente) rimangono più che altro etichette appiccicate a un po’ di combattimenti, sparatorie e inseguimenti. C’è forse un più generale tema di resistenza umana, di comunità di creature fragili in contrasto a un futuro quasi sempre distopico in cui la nostra fragile forma organica deve continuamente adattarsi per sopravvivere. Ancora una volta, però, si tratta di un tema abbastanza labile, che fatica a emergere nella cacofonia degli stili.

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Paradossalmente (o forse non è affatto paradossale) alcune delle cose migliore di Love, Death & Robots arrivano dalla comicità: che si tratti di robot del futuro in gita di piacere su una Terra distrutta e popolata da gatti intelligenti, oppure mondi comandati dallo yogurt, o ancora realtà alternative in cui Hitler è morto prematuramente nei modi più buffi, l’ironia è la chiave con cui gli autori di Love, Death & Robots riescono più facilmente ad associare la forza visiva con un minimo senso di pungente stranezza, di distacco dalle nostre identità spicciole verso una comprensione un po’ più laterale delle cose.
Sono comunque eccezioni all’interno di una narrazione un po’ scialba, sulla quale non sono mancate anche accuse più precise: in molti, specie negli Stati Uniti, hanno sottolineato il carattere un po’ troppo machista della produzione, costellata di supereroi maschioni e cazzuti circondati da donne spesso apertamente sensuali e quasi sempre vittime.
Personalmente, non è questo elemento in sé a disturbarmi, proprio a fronte del fatto che c’è un richiamo evidente a un’estetica un po’ vintage fatta di corpi femminili voluttuosi e grosse armi all’estremità di braccia muscolose. Sarebbe come chiedere a Milo Manara di non disegnare più donne nude. Non ne faccio quindi una questione morale, che finirebbe con l’annacquare tutte le visioni di tutti gli artisti (e artiste) verso una generale medietà e compromesso. Ma di certo quell’appiattimento verso il passato contribuisce allo scenario di cui sopra: quello di una serie che impatta molto sugli occhi, ma che fatica a dire qualcosa che non si sia effettivamente già sentito.
Perché seguire Love, Death & Robots: per la sua straordinaria qualità visiva.
Perché mollare Love; death & Robots: per la sua inaspettata banalità narrativa.

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