27 Ottobre 2022

Inverso – The Peripheral: su Prime Video la fantascienza di William Gibson di Diego Castelli

Videogiochi, realtà virtuali, omicidi, rapimenti e famiglie disastrate

Pilot

Inverso – The Peripheral (per gli amici solo “The Peripheral”) era una delle serie di queste settimane che aspettavo con più curiosità. È fantascienza. È fantascienza tratta da un romanzo di William Gibson (fra i numi tutelari del cyberpunk). È fantascienza tratta da un romanzo di William Gibson e prodotta da Jonathan Nolan e Lisa Joy, già creatori di Westworld. (Ora la smetto con sto giochino, ultima volta) È fantascienza tratta da un romanzo di William Gibson e prodotta da Jonathan Nolan e Lisa Joy, la cui protagonista è Chloë Grace Moretz. Che oh, me piace.

Capite dunque il mio disappunto quando, dopo i primi due episodi debuttati il 21 ottobre, mi trovo qui a dire che, purtroppo, il responso è “meh”.
Se volete potete anche smettere qui, Altrimenti a breve ve la racconto meglio.
Cercherò di fare meno spoiler possibile, ne farò giusto uno che però trovate pure nella sinossi del romanzo, quindi non mi sembra tragico.

Flynne Fisher (Moretz) è una ragazza che, nel 2032, lavora in un negozio che fa stampe 3D. A casa ha una madre non vedente e malata (Melinda Page Hamilton) e un fratello ex militare (Burton, interpretato da Jack Reynor), che tira su qualche soldo con i videogiochi. In realtà, però, quella brava con il pad è proprio Flynne, che nel corso del pilot viene convinta dal fratello a provare un nuovo hardware che le consente di sperimentare, dietro pagamento di misteriosi finanziatori, una nuova forma di realtà virtuale estremamente immersiva, durante la quale Flynne assiste a un omicidio, conosce figure losche, e prova realmente dolore fisico.

Il twist spoileroso di cui vi dicevo, ma che davvero non è sto gran twist bensì la base di tutta la faccenda, è che poi c’è un altro piano della storia, la Londra del 2099, dove un gruppo di persone comunica con il passato per scopi non meglio precisati.
Flynne dunque non sta effettivamente giocando in una realtà virtuale, ma comunicando con il futuro e comandando un androide futuristico tramite una connessione che corre attraverso i decenni e che le offre numerose opportunità ma, soprattutto, la butta in mezzo a mortali pericoli a cui Flynne non si sottrae perché l’aiuto degli uomini del futuro può risultare decisivo per la salute di sua madre.

Questo, grossomodo, è quello che si vede nei primi due episodi, e sulla carta è anche roba che funziona. Il cyberpunk è un genere ormai molto codificato, con migliaia di incarnazioni su ogni media, quindi il fatto che parlare di realtà virtuale e corpi connessi alle macchine non sia di per sé originalissimo, non ci deve troppo spaventare.

Allo stesso tempo, all’interno di una cornice che non è mai stata trattata con troppa frequenza dalle serie tv e che in questo periodo, compresi cinema e videogiochi, sta vivendo una seconda giovinezza, un prodotto che coinvolga quei nomi, su una piattaforma che in questi anni ha fatto vedere spesso i muscoli (a parte Rings of… vabbè), faceva sperare in qualcosa di “grosso”.

Poi non è sempre facile dire a priori cosa significa “grosso”, ma di solito quando ce l’hai davanti lo riconosci, e forse la smettiamo qui con questa cosa perché mi diventa un po’ sessuale.

Ebbene, l’impressione non felicissima che è The Peripheral non sia una cosa grossa.
È sia un problema di scrittura che di messa in scena.

Da quest’ultimo punto di vista, la serie non sembra in grado di aggiungere niente a quanto abbiamo già visto in tema di cyberpunk, ma anzi è perfino un po’ avara.
Nelle primissime scene c’è la rappresentazione di un videogioco in cui Burton, il fratello di Flynne, si fa aiutare dalla sorella per completare una determinata missione e ricevere così del denaro.
Ecco, sicuramente io, da videogiocatore, posso essere più sensibile al tema rispetto alla media, ma in quella scena non c’è alcuno sforzo per fingere una qualunque verosimiglianza con il reale mondo dei videogiochi. Il fatto che siamo nel 2032, cioè solo fra dieci anni, non giustifica a sufficienza il fatto che vediamo i protagonisti pigiare tasti a caso su un pad per far muovere avatar del tutto identici a persone reali. Siamo insomma nell’ambito di una rappresentazione dei videogiochi fatta da qualcuno che ci sembra non aver mai giocato a un videogioco in vita sua.

Ma se questa critica vi risulta troppo nerd, il problema è comune a tutto il doppio episodio. Se escludiamo alcune riprese a volo d’uccello della Londra del futuro, sulla quale troneggiano inquietanti grattacieli-statue di cui non conosciamo la genesi ma che riescono effettivamente a stuzzicare e incuriosire, tutto il resto è ordinaria amministrazione di una serie di fantascienza che, onestamente, non sembra avere né i mezzi né le idee per fare più di questo.

Sul fronte scrittura non va molto meglio. Sì, la storia c’è, ci sono delle potenzialità, i personaggi sono delineati con una certa precisione.
Però si ha sempre l’impressione che manchi sempre un pezzo. Una battuta illuminante qui, una sorpresa in più là. Il meccanismo della narrazione procede in maniera abbastanza scolastica, senza errori pacchiani, ma anche senza slanci, senza grosse sorprese.

C’è addirittura una scena in cui i londinesi del futuro devono spiegare a Flynne come funziona il trasferimento di dati da un’epoca all’altra, e quelli semplicemente non ci riescono.
Grazie tante, direte voi, è una cosa attualmente impossibile, certo che non ci riescono. Il problema è che sembra proprio che la sceneggiatura cerchi di mascherare con una posticcia sagacia dei personaggi il fatto che effettivamente non sapeva trovare un modo elegante per spiegare questa incredibile fanta-scienza.
Vale la pena sottolineare che guardare la fantascienza significa anche questo, cioè veder rappresentare e descrivere in maniera fintamente credibile cose che credibili non sono.

Il risultato è quello di costruire un’architettura tutto sommato solida, ma in larga parte vuota, in cui alcuni elementi classici del cyberpunk vengono incastrati senza troppi rischi, ma anche senza particolare approfondimento.
Ovvio che, trattandosi di due soli episodi, potrebbe semplicemente essere “troppo presto”. Questo discorso, però, l’abbiamo già fatto in passato: che le cose migliori di una serie tv non stiano tutte nei primi due episodi è normale e anche sano. Però io devo essere convinto da quei due episodi ad andare avanti, devo essere in qualche modo obbligato a spendere sei ore della mia vita dopo averne già spese due. Quindi che le prime due puntate diano una certa impressione di vuoto, non va bene.

Andrò comunque avanti nella visione di The Peripheral. Dei motivi di divertimento li ho anche trovati (per esempio nel buon ritmo delle scene d’azione), il genere mi piace e resto curioso di vedere come si svilupperà la storia. E poi c’è Chloë, che non è che sia sta attrice clamorosa, ma che vi devo dire, mi acchiappa.

Però serve anche uno scarto, un’accelerata. Se alla fine The Peripheral rimanesse una serie thriller-distopica in cui non c’è mai un momento di vera sorpresa e vera scoperta, e in cui i temi più profondi del cyberpunk (il fallimento dell’ottimismo tecnologico, l’alienazione del singolo, il rapporto fra reale e fittizio ecc) non trovassero un trattamento minimamente profondo e accattivante, saremmo di fronte a un’occasione sprecata.

Perché seguire The Peripheral: perché di serie cyberpunk non ce ne sono molte, e le potenzialità per dire qualcosa di interessante ci sono.
Perché mollare The Peripheral: perché da questo esordio, considerando nomi e piattaforme coinvolte, era lecito aspettarsi un impatto maggiore.



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