11 Maggio 2023

Sanctuary – Netflix: la serie giapponese sul sumo, tra film d’autore e melodramma di Marco Villa

Sanctuary racconta la storia di una scuderia di sumo, con i lottatori che cercano di emergere e un po’ troppo pathos

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Sono le unicità a fare le storie. Le prime persone che hanno compiuto un’impresa, quelle che hanno raggiunto risultati superiori alla media o che operano in un campo che è per pochi. Da questo punto di vista, non stupisce che Netflix proponga Sanctuary, serie giapponese ambientata nel mondo del sumo. Perché il sumo è un unicum nel mondo dello sport: per tutti, il fisico dello sportivo è uno e uno solo, ovvero asciutto e muscoloso. Più o meno massiccio a seconda del tipo di sport, perché tra un centometrista, un ciclista o un fantino le differenze sono piuttosto evidenti, ma ci siamo capiti. A questa regola, sfuggono poche discipline: a memoria, il lancio del peso, alcuni ruoli del rugby e il sumo, appunto.

Il sumo su tutti, vien da dire, perché è uno sport che fa dell’immobilità l’obiettivo ultimo: il lottatore deve resistere agli attacchi dell’avversario, che cerca di buttarlo fuori dal ring, il dohyō. Poi deve contrattaccare, certo, ma è la stabilità la chiave di tutto. E allora gambe granitiche e tanta, tanta, tanta massa. Non esattamente magra.

Sportivi anomali, quindi, ma soprattutto portatori di una tradizione millenaria, che per forza di cose si scontra con un presente sempre più lontano da quelli che erano i riferimenti originari del sumo stesso. Sanctuary è ambientata in una scuderia di sumo di Tokyo, una sorta di squadra dove si allenano alcuni lottatori. Ci sono quelli esperti e ci sono gli ultimi arrivati: Kiyoshi (Wataru Ichinose) è la testa calda, che odia il mondo e ha una rabbia interiore in grado di appiccare incendi, mentre Shimizu (Shota Sometani) è la recluta appassionata, ma gracilina, che non si capisce come possa avere speranze.

Il tono della serie è dettato dalle prime due sequenze: la prima è caratterizzata da inquadratura fissa su un muro su cui viene fatto sbattere infinite volte Kiyoshi, respinto dal suo antagonista principale, un lottatore in declino con cui si scorna senza sosta. La seconda è una scena in cui i lottatori mangiano con una voracità animalesca, al termine della quale il già citato lottatore in declino costringe gli ultimi arrivati a pulirlo dopo essere andato in bagno (ed evito di entrare nei dettagli).

Sono due scene a loro modo crude, senza mediazioni. Nella prima vediamo un corpo picchiato, sanguinante, sudato e sporco che sbatte su un altro e viene abbattuto. Capiamo che la vita dei personaggi è una continua ripetizione di dolore inflitto e, in qualche modo, autoinflitto. Nella seconda assistiamo a un nonnismo e a un cameratismo che sono evidentemente congeniti in qualsiasi tradizione che ha radici secolari, ma che ai nostri occhi risultano insostenibili.

Si tratta di due momenti che funzionano alla grande, così come funziona benissimo in Sanctuary tutto quello che avviene all’interno del santuario stesso, della scuderia, raccontato con uno stile secco ed essenziale, verrebbe da dire autorale. Le cose cambiano invece quando seguiamo le vicende al di fuori della scuola, che invece sembrano provenire da una bruttissima fiction, con luci sparate, rallenti e un melodramma di fondo davvero insostenibile. Uno stacco troppo evidente per non essere voluto, ma anche difficile da digerire. Per dire, tutta la storia di Kiyoshi sembra uscita da un film alla Raffaello Matarazzo: famiglia di lavoratori che va in crisi per errori di gestione economica del padre; la madre se ne va; il padre va in crisi; il figlio se ne va dal paesello per andare a lottare a Tokyo, portando con sé l’ultima banconota rimasta al padre, che è pure zoppo e si mette a correre sulla banchina mentre il treno si allontana, per vedere il figlio un’ultima volta. Troppo? Eh, fate un po’ voi.

Nonostante questa parte, Sanctuary è una serie che ha qualcosa, perché la parte del sumo è davvero affascinante e potente, estremamente fisica e senza mediazioni. Può bastare? Dipende dalla vostra soglia di sopportazione del melodramma.

Perché guardare Sanctuary: perché il mondo del sumo è di grande fascino e la resa sullo schermo efficace

Perché mollare Sanctuary: perché le parti fuori dal ring sono un mattone melodrammatico

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