28 Marzo 2024

Manhunt su Apple Tv+ – Storia di assassini e presidenti di Diego Castelli

La caccia all’uomo dell’assassino di Lincoln diventa scusa per un approfondimento su un evento centrale della storia degli Stati Uniti

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Se come me guardate le serie tv fin dalla più tenera età, è possibile che già alla fine degli anni Ottanta o nei primi anni Novanta, a prescindere da qualunque input scolastico, siate venuti a sapere del fatto che è esistito un tizio che si chiamava Abraham Lincoln, che era stato un Presidente degli Stati Uniti (il sedicesimo, per la precisione), che era uno che andava in giro con la tuba e una barbetta, e magari pure che era stato ucciso mentre assisteva a uno spettacolo teatrale.

Se abbiamo ricevuto questi bit di informazione quando ancora andavamo alle elementari è perché esistono decine, forse centinaia di serie tv (dai drama più cupi alle sitcom più leggere) in cui la figura di Lincoln – fra i presidenti più conosciuti e amati della storia americana, colui che vincendo la Guerra Civile mise fine alla schiavitù negli Stati Uniti – compariva in mille salse, dalla semplice menzione per bocca di questo o quel personaggio, alle citazioni scritte all’inizio di un episodio, arrivando alle recite scolastiche con cui i bambini delle comedy mettevano in scena la storia del proprio Paese.

Nel corso degli anni, dopo quelle prime informazioni, ci sarà capitato di saperne un po’ di più su Lincoln, e magari abbiamo anche visto il film di Steven Spielberg con Daniel Day Lewis.
Ora però arriva anche un aiuto in più, che si concentra proprio su un aspetto particolare della vicenda del Presidente: Manhunt, nuova miniserie di Apple Tv+, racconta infatti della morte di Lincoln per mano di John Wilkes Booth e, soprattutto, della “caccia all’uomo” (da qui il titolo) che ne se seguì, fino alla cattura e alla morte del fuggiasco (direi che non è il caso di considerare spoiler un evento di 160 anni fa).

Manhunt è tratta dal romanzo quasi omonimo di James L. Swanson ed è creata da Monica Beletsky, alla sua prima esperienza come showrunner ma con un passato di sceneggiatrice per serie come Fargo e The Leftovers.

La storia si concentra in parte su Lincoln, la cui attività politica e influenza culturale è mostrata anche attraverso alcuni flashback (perché ovviamente il poverino muore già nel primo episodio), ma soprattutto sulla caccia a Booth (Anthony Boyle) da parte di Edwin Stanton, il Segretario della Guerra interpretato da Tobias Menzies, che dà vita a un personaggio segnato da una feroce determinazione e un fiero idealismo, uniti però ad alcuni problemi fisici e a un’indole al sacrificio che sa di masochismo.

Nel cast anche altri volti noti come Patton Oswalt e Matt Walsh, ma soprattutto un quasi irriconoscibile Hamish Linklater, già recente (e ottimo) protagonista di Midnight Mass e qui truccatissimo per la parte di Lincoln.

Nei tre episodi che abbiamo visto finora, Manhunt è una buona serie, con due anime diverse ma ugualmente evidenti.

Da una parte c’è il thriller poliziesco, in cui c’è un fuggiasco, un’indagine, una suspense che ovviamente non deriva dal “non sapere chi sia coinvolto e cosa accadrà”, ma dalla pura costruzione di una corsa contro il tempo, di un avvicinamento progressivo a una preda che sappiamo avere i minuti contati.

Dall’altra c’è la ricostruzione storica, con una cura e una passione che non si vedono solo nell’alto budget delle scenografie e del costumi, ma anche in tanti piccogli dettagli come l’ossessiva descrizione dei luoghi e dei tempi, con scritte a video che ci permettono di sapere sempre dove siamo e quando, spesso con specifico riferimento alla distanza temporale (in avanti o indietro) rispetto all’omicidio del Presidente, che ovviamente resta il perno attorno al quale gira tutta la vicenda.

In quella ricostruzione storica, poi, vediamo un intento accademico che, se anche non rifugge una certa glorificazione di Lincoln in quanto politico buono, intelligente, moralmente incorruttibile (con un’enfasi in cui è difficile non vedere un po’ di patriottismo), ci permette comunque di avere un quadro più completo di una fase storica assai turbolenta.

Se la fine della Guerra Civile, l’abolizione della schiavitù e l’inizio di una fase nuova per gli Stati Uniti, vengono solitamente raccontati in modo spiccio come uno spartiacque, una linea con un prima e un dopo che vale per tutti, la realtà è ovviamente più complessa di così, come dimostra poi un futuro che, di fatto fino ai giorni nostri, in termini di tensioni politiche e razziali non è stato di certo un paradiso.

In questo senso, Manhunt ci mostra un Presidente che vive un tempo in cui il capo del governo si muove in poche stanze e corridoi ed è quasi meno famoso del suo futuro assassino (che era un attore di teatro piuttosto conosciuto); ci mostra un Paese diventato pacifico ma non pacificato, in cui i disaccordi fra Nord e Sud continuano a esistere, e in cui molti fra gli sconfitti non ci stanno; ci mostra un John Wilkes Booth che, molto più che essere un semplice esaltato, si considerava un vero e proprio patriota, un attivista e un soldato che puntava alla fama e alla gloria derivanti dal compiere nella maniera più roboante possibile un’impresa che, dal suo punto di vista, non era altro che “giusta”.

Io non sono un esperto della materia, e onestamente non so dirvi se Manhunt faccia tutto per bene, o se lasci fuori qualche pezzo importante, o se ci siano uno o più elementi presentati in maniera in qualche modo distorta.
Sono peraltro convinto che, come sempre accade in questi casi, ci sarà chi trova tutto giusto e tutto sbagliato, e le mille vie di mezzo.

Mi sembra però innegabile che Manhunt ci offra “di più”. Più di quello che siamo abituati a vedere o cogliere di sfuggita, più di quello che una storiografia scivolata nella leggenda ha finito col trasformare in un grumo di concetti drittissimi e senza sfumature.
Quella di Manhunt è una storia (o Storia) di persone vere, non di figurine, persone inserite in un contesto complesso, chiamate a decisioni difficili, portatrici di valori e visioni del mondo differenti che confliggono proprio nel momento in cui, in teoria, dovevano smettere di confliggere.

In questo senso, Manhunt è una serie che per noi italiani resta “lontana”, ma che pure a queste longitudini ha il fascino della scoperta del dietro le quinte, del completamento di un puzzle di cui finora avevamo ricevuto pochi pezzi, e quasi sempre gli stessi.
Non è il capolavoro dell’anno, e tuttavia è un prodotto solido e interessante, che se vi piace il genere storico è necessariamente da consigliare.

Perché seguire Manhunt: un ricostruzione dettagliata e appassionante di una storia di cui spesso abbiamo sentito solo accennare.
Perché mollare Manhunt: se odiate i podcast di Alessandro Barbero, magari anche questa non vi interessa.
(Ma poi perché dovreste odiare Barbero?)



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