15 Giugno 2011

Happy Endings – Finale di un’inutile stagione di Marco Villa

Ci sembrava brutta. Lo è.

Copertina, On Air

Ok, dopo aver visto il pilot non avrei mai pensato di guardare tutta la prima stagione di Happy Endings. È andata così, e la colpa è di quelli di Itasa che si esaltano per ogni cosa a puntate – compreso il Quesito della Susi, ma soprattutto mia che ogni tanto ci casco ancora nel ritenerli in grado di equilibrati giudizi critici. Insomma, dopo il primo episodio Happy Endings pareva scialbo e scritto male. Spoiler: è così. La storia o la sapete o l’avete già riletta, quindi evito di ammorbarvi con il riassuntone. Siamo a Chicago e ci sono sei amici. Cosa combinano da mattina a sera? Nulla. Dove “nulla” è da intendersi sia come “sono dei lavativi”, sia come “non mettono insieme due azioni due nell’arco di una stagione”. Se per Il commissario Montalbano avevo a suo tempo usato la definizione di “fiction a sforzo zero”, per questa serie parlare di sforzo sarebbe già un complimento.

La grande assente di Happy Endings è la scrittura, accoppiata in questo caso a pura idiozia a livello di network (ABC). Se tutto muove da un evento a suo modo molto forte (l’abbandono sull’altare), tutto il resto vive in una sorta di sospensione. Nell’arco delle puntate, il concetto di tempo è decisamente volubile: non siamo infatti davanti né a una serie orizzontale, né a una verticale. Siamo di fronte a una serie teletrasportabile, che decide di passare sopra all’idea stessa di tempo. Una scelta filosofica o una grande incompetenza? Sta di fatto che assistiamo dalla seconda alla nona puntata alla vita dell’abbandonato sull’altare, che è andato a vivere con un suo amico. Poi, nella decima, assistiamo al trasloco dello stesso abbandonato, che lascia l’abitazione della ex-morosa per andare a vivere con un suo amico. E no, non ho sbagliato a scrivere. A parte un mio amico che dice frasi del tipo “appena torno ci vediamo. Sono a casa il 31 luglio, quindi il 29 possiamo vederci”, non ho mai incontrato nessuno che avesse questa dimestichezza con la fluidità temporale. Una totale indeterminatezza che sa di fancazzismo e di Occhi del Cuore. A quanto pare, la rete ha deciso di spostare questi episodi, cambiando l’ordine di messa in onda. Come a dire: tanto gli sceneggiatori di questo telefilm non contano un cazzo.

Tale indeterminatezza, infatti, non è legata solo al continuum spaziotempo, ma anche agli stessi personaggi. Di fatto, non sappiamo cosa fanno nella vita. Abbiamo qualche dettaglio sulla ex-coppia, ma sugli altri buio assoluto. Ciononostante, sappiamo che vivono in appartamenti che ciao, e quindi dovrebbero disporre di liquidità. Ora: o dichiari che sono figli di papà (e allora puoi sfruttare anche quella linea comica), oppure devi dire come spendono la giornata questi figlioli. Non so come se la passino gli sceneggiatori di questa robetta, ma nel mondo reale la gente trascorre un terzo della propria giornata a fare qualcosa. E anche nella finzione, conosciamo ogni dettaglio della professione dei protagonisti di telefilm come Friends o How I Met Your Mother, al punto che, quando non viene mai approfondita – vedi Chandler e Barney, diventa fonte di comicità. I personaggi di Happy Endings, invece, vegetano. Sospesi in questa bolla, diventano così delle figure di contorno costrette a prendere il centro della scena. Il risultato è una manciata di protagonisti senza alcuno spessore (si salvano solo Max e Penny, a.k.a. il gay e la Bridget Jones mora), che galleggiano in un mare di inutile mediocrità, aggrappandosi disperatamente ai rari salvagenti di qualche trovata decente (come la puntata sugli hipster). Poco, veramente troppo poco. Eppurtuttavia, serie rinnovata.



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