Glee – Siamo arrivati al punto di rottura (di balle) di Diego Castelli
Sgomento di fronte a un episodio traditore
Dall’inizio della stagione non avevo ancora scritto un post su Glee. Non dite “grazie a Dio” là in fondo, vi ho sentiti. Ah Villa, sei tu, vabbe’…
Come i nostri più vecchi lettori sanno bene, io nasco grande fan della serie di Ryan Murphy. Ma proprio sostenitore accanito, che quando mandarono in onda il pilot a maggio, mesi prima della partenza ufficiale, passai l’estate a rivederne periodicamente i momenti topici (si veda il fondo pagina).
Da allora, dopo molti episodi e premi a catinelle, è subentrata un po’ di amarezza. La seconda stagione non è stata all’altezza, e ce lo siamo detti chiaro e tondo in occasione del finale, a giugno.
Questo nuovo ciclo doveva essere, almeno nelle mie speranze, quello del rilancio: gli autori avevano fatto sapere che sarebbe stato l’ultimo anno per molti protagonisti, secondo una coraggiosa logica del “non posso seguirti fuori dal liceo, va dove ti porta il canto, e addio”. Era quindi logico aspettarsi un impegno maggiore, per salutare degnamente i beniamini della prima ora.
Purtroppo, questi due mesi non hanno segnato alcuna inversione di tendenza. I difetti della serie si sono ripresentati tutti: narrazione troppo sfilacciata e altalenante, lezioni filosofico-morali insegnate troppo in fretta e altrettanto rapidamente dimenticate, scelta discutibile dei pezzi musicali, e quella sgradevole sensazione di non capire dove si va a parare.
E West Side Story ha Rotto. I. Coglioni.
Ad ogni modo, si vivacchiava. Una battuta lì, una canzone carina là, qualche ideuzza divertente (tipo Brittany e i leprecauni). Niente di paragonabile agli episodi di due anni fa, ma buttavi comunque giù il boccone.
Poi ho visto l’episodio di martedì scorso, 3×05, incentrato sulle prime volte (inteso proprio in quel senso là).
La peggior puntata di Glee mai trasmessa.
Eccessivo, dite? A prima vista sembra una puntata come le altre: qualche brano, qualche turba adolescenziale, sogni sul futuro e via dicendo. E invece no, vi garantisco che è un episodio subdolo e meschino.
Dobbiamo ripensare al pilot di due anni fa. Anche se possiamo riferirci all’intera prima stagione. Si partiva dal concetto di “una serie teen musical”. Dentro questo concetto c’era una cheerleader devota che si metteva a pregare non appena il fidanzato le sfiorava le chiappe, salvo poi farci scoprire che era incinta. C’erano protagonisti realmente sfigati, che imbastivano discorsi aspirazionali e pieni di ardore, subito raffreddati da gelide docce di granita. C’erano figure di una demenza e di un’ignoranza stellare. C’era un cattivo spettacoloso, una professoressa di ginnastica capace di dire degli studenti le peggio cose, con una prosa elaborata e splendidamente malvagia. Insomma, c’era un’autoironia incredibile, che non significa solo “fare battute divertenti”, bensì conoscere la propria natura e riuscire a giocarci, portando un genere classico nel nuovo millennio ma senza perdere emozione genuina, perché sulle note del primo, indimenticabile Don’t Stop Believing c’era da commuoversi sul serio.
L’episodio di tre giorni fa non aveva nulla di tutto questo. Nulla.
Questa puntata lascia del tutto ai margini sia Brittany che Sue Sylvester. E la loro mancanza lascia sorprendentemente in vista tutti i problemi in cui la serie si è andata a cacciare. Senza di loro, ci accorgiamo che Glee ha cominciato a prendersi maledettamente sul serio. I patemi amorosi di Rachel+Finn e di Kurt+Blaine sono trattati come in un vero teen drama, così come i numeri di canto e ballo sono da vero musical, praticamente autosufficienti. Ma Glee non era un vero teen drama e nemmeno un vero musical, ed era lì il succo della faccenda!
Kurt era uno studentello effemminato e simpatico, con doti canore particolarissime. Ora è una checca noiosa che vorresti prendere a sberle per quanto miagola. Rachel era una talentuosa sfigatella, piena di entusiasmo deliziosamente irritante. Ora è irritante e basta. Finn era un fantastico eroe al contario, sulla carta bello, aitante e dotato, ma in realtà stupido come una mosca dietro un vetro. Ora è solo uno studente seriosamente preoccupato del suo futuro – e grazie al cazzo, sei stupido come una mosca dietro un vetro, dove volevi andare – che peraltro non fanno più cantare, perché si sono accorti che anche il bidello è meglio.
Il bello dell’operazione di Ryan Muprhy non stava nel dare nuovo lustro a un genere poco battuto dai telefilm. Era invece la capacità di andare oltre quella proposta, usandola come semplice punto di partenza per un discorso più complesso, ma anche più scanzonato e furbo.
Nel tempo, la serie è regredita, inciampando varie volte. Ma solo con questo episodio, con la sua pallosa seriosità, con la totale mancanza di ironia, con la voglia sempre maggiore di uccidere tutti i fottuti fringuelli, si sono persi quei dettagli che rendevano Glee una serie diversa dalle altre.
L’episodio di tre giorni fa è Amici di Maria De Filippi. Ma se volevo vedere Amici di Maria De Filippi guardavo Amici di Maria De Filippi. E invece io volevo vedere Glee, che era una cosa molto, molto diversa. Una cosa talmente variegata che poteva interessare anche uno come me, che ha trent’anni, pochi capelli, e nessuna particolare passione per il musical.
Dov’è finito Glee? Lo posso riavere, per favore?
Ora, è evidente che non è questo il volto che la serie avrà nelle prossime settimane. Eppure, questo ennesimo passo falso è sintomo di una bussola che non sembra più segnare la direzione giusta. Troppi personaggi che saltano da un sentimento all’altro; troppi strappi narrativi; troppe volte in cui il numero musicale sembra sparato dentro a caso, giusto per inserire una canzone più recente di altre; troppo indugio sulla componente strettamente romantica, per la quale vengono (per forza) usati personaggi che in quella situazione non possono essere credibili.
E non mi sta bene nemmeno il Glee Project, il talent show ideato per trovare nuovi attori per la serie. Sembrerebbe un modo nuovo e creativo di fare casting pubblico, una via futuristica alla contaminazione inter-format. Ma rischia solo di trasformare la serie in una specie di premio per i vincitori di un reality, in un mischione pauroso di glamour, marketing e astuti luccichii, che lascia poco spazio alle cose importanti.
Non c’è dubbio che continuerò a seguire Glee, almeno fino all’inizio della prossima stagione. Ma temo che lo farò per dovere, in quanto redattore di un blog sui telefilm. Se fossi stato uno spettatore normale, senza obblighi morali verso di voi, amati lettori, probabilmente questa sarebbe stata la mia ultima puntata.
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In memoria del tempo che fu:
Glee – Don’t Stop Believe di Bugabookas