29 Agosto 2018 56 commenti

Sharp Objects – Analisi di una serie sprecata di Marco Villa

L’inizio di Sharp Objects ci aveva conquistati: dopo il finale, il giudizio sulla serie non può essere positivo per tante ragioni

Copertina, On Air

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ATTENZIONE: SPOILER SUL FINALE DI SHARP OBJECTS

Interpreti perfetti, messa in scena impeccabile, montaggio curatissimo. Sono questi gli elementi che in Sharp Objects saltano subito all’occhio, quelli che sottolineammo in occasione della recensione del primo episodio.

Al termine della serie, non si può non continuare a elogiare quegli aspetti, ma è inevitabile anche sottolineare che all’appello manca un tassello piuttosto fondamentale in una serie tv: la scrittura, che risulta non pervenuta. Sharp Objects nasce come un thriller, con omicidi e indagini, ma fin da subito è evidente che non si tratta di una serie di genere. Già dai primi episodi si intuisce che la vera indagine è quella che Camille porterà avanti su se stessa e del resto è questo anche il vero obiettivo dell’incarico che le è stato assegnato dal suo caporedattore. Nei primi episodi, questa linea narrativa viene portata avanti con misura, conducendoci a scoprire i traumi nel passato di Camille, ma di fatto rivelando poco che già non sapessimo dall’inizio. Negli ultimi episodi, lo scavo interiore si riunisce con l’indagine vera e propria e qui iniziano i grossi problemi, perché la trama thriller fa acqua da tutte le parti. Come detto più volte, non ci si aspettava un’indagine rigorosa, ma nemmeno un racconto incapace di stare in piedi.

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Facciamo ordine: l’indagine per il duplice omicidio delle due ragazze si conclude con l’arresto e la condanna di Adora (che si dichiara non colpevole), grazie al ritrovamento nella sua villona delle pinze usate per strappare i denti alle vittime. Nell’ultima scena scopriamo che i denti si trovano in realtà nella casa delle bambole di Amma, a ricreare quelle piastrelle in avorio che sono state più volte richiamate nei dialoghi e nelle inquadrature. Ovvero: Adora ha provocato la morte della figlia Marian, ma non c’entra con gli omicidi seriali, che sarebbero stati compiuti da Amma.

Per tutta la serie, l’indagine si concentra sulla ricerca di un uomo e solo verso la fine Camille butta lì dal nulla che forse andrebbe cercata una donna, giusto per preparare la strada al finale. Però c’era un motivo se l’indagine si era concentrata sugli uomini e quel motivo era che il povero Dick da Kansas City, nel suo unico contributo all’indagine, aveva provato a strappare i denti a una testa di maiale, facendo una fatica incredibile. Di colpo però, questa informazione viene archiviata e diventa plausibile che prima Adora e poi Amma siano le assassine. Secondo dettaglio: l’altrettanto povero John Keene, che condivide con Dick il fatto di non avere nessuno spessore, ma solo un’utilità narrativa, viene arrestato perché vengono trovate tracce di sangue della sorella sotto il suo letto. Anche questo fatto, viene ignorato. Due buchi enormi di sceneggiatura, inammissibili anche per un thriller-che-non-è-un-vero-thriller. Ma uscendo da questo schema, ci sono buchi anche sotto altri punti di vista: pensiamo ai due uomini di Adora, al marito complice che accetta di vedere morire una figlia, all’amante-sceriffo che arresta l’amata senza apparente turbamento. Entrambi archiviati come se non fossero mai esistiti.

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L’unico turbamento che viene affrontato è quello di Camille, ma nella memoria che riaffiora pian piano non c’è mai nulla di decisivo ai fini narrativi, escluso il ricordo di un morso dato dalla madre alla figlia neonata (altro capitolo non approfondito, quello dei morsi). Si tratta di tanti dettagli che non trovano il proprio posto, a fronte di otto puntate eccessivamente dilatate, in cui è stata più volte palese l’incapacità di gestire il minutaggio a disposizione. Aggravante, questa, per una serie che finisce senza trovare il giusto posto a troppi elementi. E soprattutto che finisce con una sorpresina che sembra posticcia: far ricadere la colpa sulla grande cattiva di Sharp Objects sarebbe stato forse un po’ facile, ma comunque coerente. L’idea che una serie tutta basata sull’attesa si risolva con un colpo di scena da 3 secondi (per quanto accompagnato dalla battuta migliore di tutta la serie: “Non dirlo alla mamma”) lascia abbastanza sbigottiti. Non ho ancora finito, perché tra i titoli di coda è nascosta una breve sequenza che mostra che Amma non era da sola a uccidere, ma che era aiutata dalle sue due amiche pattinatrici. Ovvero: amici autori, avete avuto otto ore e scegliete la strada della pecetta nei titoli di coda? Qui si arriva a tanto così dalla presa in giro dello spettatore.

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Sharp Objects probabilmente nasce figlia di True Detective, di una serie che prendeva la trama gialla e la metteva sempre in secondo piano, a dispetto del proprio titolo. Nella serie di Nic Pizzolatto (nella prima stagione, almeno), i conti però finivano per tornare: c’era l’accuratissimo approfondimento psicologico, ma anche la chiusura di una vicenda crime. Sharp Objects perde invece via via il controllo di entrambe le trame e, quando nel finale cerca di incrociarle, fa esplodere tutto. Alla fine resta l’intensità di Amy Adams, restano le vie di Wind Gap e le splendide inquadrature delle ragazze sui pattini. Uno spreco incredibile.



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