13 Agosto 2020

Perry Mason: prima stagione approvatissima di Diego Castelli

Riparliamo del famoso avvocato approdato su HBO, per riconoscere che quella che sembrava un’operazione azzardata è invece andata perfettamente a buon fine

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SPOILER SU TUTTA LA PRIMA STAGIONE

Quando si parla di “serialità estiva”, ci sono due concetti fondamentali che ritornano: la presenza di meno serie da guardare, con conseguente spazio per i recuperoni, e la scoperta di piccole chicche inaspettate.
Sul primo tema c’è poco da dire, specie in mesi di Covid: in giro c’è poca roba, e in questo momento può anche andare bene così (io mi sto recuperando Ramy, fra le altre cose, ne parliamo settimana prossima perché merita di brutto), ma abbiamo anche un po’ d’ansia per quello che sarà un autunno probabilmente un po’ vuoto.
Sul secondo punto, invece, è giusto ricordare che sì, l’estate è solitamente un periodo un po’ “spento”, ma questo non si significa che non ci sia spazio per vere e proprie sorprese. Un esempio per tutti? Succession, che nacque a tutti gli effetti come serie estiva (giugno-luglio 2018) imponendosi comunque come una delle migliori novità dell’anno.
Ecco, non siamo ai livelli di Succession, probabilmente, ma due parole al miele per Perry Mason le vorrei spendere comunque.

Del pilot avevamo già parlato, concentrandoci soprattutto sul lavoro compiuto dal protagonista Matthew Rhys, ma ora vale la pena di allargare il discorso.
Perry Mason, prima che essere una serie avvocatizia su uno dei più famosi principi del foro della televisione tutta, è stata una riscoperta diretta, esplicita, perfino compiaciuta del noir.
Il genere, amatissimo negli anni Trenta e poi ripreso, rielaborato, rimasticato nei decenni successivi, non è propriamente il più gettonato dalla televisione, che certo ha una lunga tradizione di poliziotti e gangster, illustrati però sotto luci diverse.
Perry Mason invece riscopre e rispolvera proprio quella tradizione lì. Lo fa con l’ambientazione, naturalmente, ma lo fa anche con la musica, che rifugge qualunque inclinazione moderna per restare legata a quell’America che fu, e lo fa soprattutto con alcuni temi centrali della narrazione. Soprattutto, con l’idea di un mondo sporco, malato, eticamente danneggiato, in cui c’è poco spazio per l’amore e la giustizia e molto per la corruzione, la malvagità, l’egoismo. Il termine “noir” non fa riferimento solo a una fotografia grigia, scura, spesso deviata al giallo-malaticcio (su cui pure Perry Mason lavora parecchio), ma anche al nero del cuore degli uomini, a cui si oppongono pochi eroi ed eroine, spesso contaminati dalla stessa oscurità.

In questo senso, l’ambientazione è sì un gioco stilistico voluto dai creatori Rolin Jones e Ron Fitzgerald, ma acquista un significato preciso nel momento in cui guardiamo la serie come romanzo di formazione. Perché in fondo questa prima stagione è esplicitamente il racconto del percorso compiuto da un personaggio che, all’inizio, non è ancora chi dovrebbe essere.
Il punto finale del percorso bene o male lo conosciamo, perché sappiamo che Perry Mason deve diventare un grande avvocato. E si badi bene, un avvocato difensore: all’inizio della serie Perry è un investigatore privato, immerso in un mondo noir, che per professione deve saper interpretare una scena del crimine per andare a caccia dei cattivi. Sono tutti elementi di un genere molto preciso che però cozzano con la personalità di Perry e soprattutto con l’interpretazione del suo attore, che crea un Mason non tanto inadeguato al ruolo (effettivamente è un bravo detective), quanto piuttosto incapace di trarne reale soddisfazione. La differenza rispetto ai grandi detective del noir è che questo Perry Mason ne condivide i difetti e parzialmente il carattere, ma allo stesso tempo ci si allontana visibilmente, come se in effetti non potesse perseguire quella carriera in eterno.

Il passaggio alla professione di avvocato, che nella serie appare un pochino forzata ma comunque lineare, rappresenta per Perry un percorso dall’oscurità alla luce: non più cercare i cattivi nei vicoli bui, ma farsi la doccia, vestirsi decentemente e difendere gli innocenti in tribunale. Non è un passaggio semplice, né indolore, né completato in ogni sua parte. Ma è un percorso inevitabile per come è stato costruito il personaggio, e per come è stato interpretato da Matthew Rhys, che ci mostra un Perry esageratamente più a suo agio nel proteggere, piuttosto che nel menare le mani.
A questo proposito, mi chiedo se l’effetto sarebbe stato lo stesso se, come inizialmente previsto, a interpretare il protagonista ci fosse stato Robert Downey Jr., che invece figura solo come produttore. Al netto della rilevanza mediatica sicuramente maggiore che la serie avrebbe avuto, non sono convinto che l’ex Iron Man sarebbe stato altrettanto efficace. E questo non per sua incapacità, naturalmente, ma proprio perché ormai la sua faccia è legata a un certo mondo di personaggi simpatici e sbruffoni (il citato Iron Man, ma anche lo Sherlock Holmes di Guy Ritchie) che non c’entrano nulla con un povero cristo che prova a fare il detective fin quando non si accorge che la sua vera vocazione è un’altra, molto più luminosa e “buona”.

Il che non significa, naturalmente, che col cambio di casacca di Perry si cambi completamente genere. In questa prima stagione Perry Mason non smette di essere un noir, e lo si vede proprio nei risultati dell’azione legale del protagonista. Certo, Emily non finisce in galera, ma non viene neanche assolta. Sul finale, dopo i festeggiamenti, scopriamo che Mason aveva fatto pagare un giurato per arrivare all’annullamento del processo (cosa che non sarebbe comunque stata necessaria, ma che rimane una vistosa macchia nell’operato dell’avvocato). Il cattivo più “esplicito”, il detective Ennis, finisce ammazzato lontano dagli occhi della giustizia. E molti dei veri malvagi rimangono a piede libero.
Insomma, se il protagonista ha fatto un percorso suo, che lo porta a prendere il posto del compianto ‘E.B.’ Jonathan e perfino a sorridere della sua nuova professione, il mondo intorno a lui rimane ancora sporco e ambiguo, e la lotta per cambiarlo è solo cominciata. Semplicemente, a fine stagione Perry Mason ha capito quali sono gli strumenti a lui più congeniali per combatterla.

Da questo punto di vista, sono curioso di vedere quale direzione prenderà la serie nella prossima stagione, considerando che la prima ha una traiettoria ben definita e ha potuto contare sulla “sorpresa” derivata dal vedere un Perry Mason diverso dal solito, il cui cammino era proprio rivolto alla sua immagine più conosciuta. Ora che quell’immagine è stata raggiunta, ora cioè che Mason è effettivamente un avvocato come da tradizione, sarà interessante capire quanto si vorrà calcare ancora la mano sul noir e sull’identità non ancora perfettamente definita del protagonista, e quanto invece si deciderà (come io spero) di scegliere modi diversi per essere “originali”.
Magari sfruttando in modo nuovo i vari comprimari che in questa stagione hanno supportato il lavoro del personaggio principale, spesso ritagliandosi ruoli non banali: il riferimento va soprattutto a certi personaggi femminili, in particolare Ella (Juliet Rylance), che fa un gran lavoro nel corso degli otto episodi per tenersi ben lontana da certi stereotipi del genere, che potevano chiuderla nella figura della segretaria svampita o della vamp misteriosa. Pur nel suo amore per il noir classico, Perry Mason è anche una serie del 2020, e i suoi personaggi femminili rifiutano posizioni meramente accessorie (o meglio, accettano posizioni accessorie nella misura in cui sono tutti accessori a Perry), nel tentativo di mostrare un carattere che, pur frustrato da una società ben poco tenera con le donne, era presente eccome.

Spiace allora che l’unica vera nota stonata di Perry Mason venga non solo da un personaggio femminile, ma anche da un’attrice che amiamo moltissimo come Tatiana Maslany. Tutta la sottostoria della setta religiosa è naturalmente fondamentale ai fini della trama, perché sono proprio le vicende interne alla setta a causare i mille inghippi che portano Emily alla sbarra, ma nel complesso esprime una forza inferiore alle attese e, probabilmente, alle speranza degli autori. Le scene di massa, le grandi predicazioni accalorate, e la manfrina sulla resurrezione di Charlie hanno il pregio di aggiungere superstizione e ignoranza a un mondo già complicato di suo, ma non riescono a imporsi come una parte della storia che appassioni davvero.
La Maslany prova a fare il suo nel costruire una Sister Alice che sia insieme inquietante e affascinante (la vera femme fatale della serie, come da manuale del noir, dovrebbe essere lei), ma è proprio la sceneggiatura a lasciarla né carne né pesce. Lo si vede bene nel finale, quando il saluto fra lei e Perry vuole essere carico di significati, ma in realtà non regge il rapporto del protagonista con Ella, o con la stessa Emily.

Nel complesso mi pare un difetto abbastanza vistoso, visto che si prende molti minuti di stagione, ma da solo non riesce comunque a incrinare la sensazione di aver visto una serie solida, ben recitata, ben messa in scena, guidata da un attore protagonista che ormai non ha più nulla da dimostrare, capace com’è di adattarsi a ogni situazione ma anche di mantenere costante il suo punto di forza, cioè un volto inevitabilmente “buono”, ma su cui può passare comunque una buona dose di dramma.
All’inizio sembrava che Perry Mason potesse scegliere di non andare oltre la prima stagione, e la storia ha evidentemente il carattere di un arco che si autoconclude. Ma il successo di pubblico e critica hanno convinto HBO che non era il caso di liberarsi così tanto presto del loro novello avvocato, e quindi è già stata annunciata una seconda stagione che, come detto, dovrà fare qualche scelta importante. Ma ci sembra che le basi per fare bene ci siano: Perry Mason è famoso dagli anni Trenta, non si vede perché non potrebbe rimanere famoso un altro po’.



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