2 Novembre 2021

Swagger – Su Apple TV+ adolescenti, basket e sogni americani di Diego Castelli

Con Swagger, Apple TV+ torna a parlare di sport ma con toni molto diversi da quelli di Ted Lasso

Pilot

Non vorrei fare una gaffe dimenticandomi qualcosa, ma credo di poter dire che, finora, l’unico accenno allo sport fatto dalle serie tv di Apple TV+ vada cercato in Ted Lasso. Che per carità, è un adorabile capolavoro, ma non è che metta il mondo del calcio esattamente al centro della narrazione, trasformandolo piuttosto in una cornice che dia senso a storie personali e temi social-psicologici che potrebbero anche svolgersi in altri contesti.
Se quindi chiamare Ted Lasso una serie “sportiva” può suonare un po’ inappropriato, dovrebbe invece funzionare meglio con Swagger, il nuovo show della casa di Cupertino che questa volta è ambientato nel mondo del basket per giovanissimi, e che porta le firme di Reggie Rock Bythewood (creatore effettivo della serie) ma soprattutto di Kevin Durant, ala dei Brooklyn Nets e uno dei più forti giocatori di pallacanestro attualmente in circolazione, che qui figura nei panni di produttore.

Se Ted Lasso è una comedy in cui il pallone c’entra fino a un certo punto, cosa che si vede benissimo quando cercano di mettere effettivamente in scena il gioco del calcio (con risultati spesso molto goffi), Swagger è un drama in cui il campo, la palla, il sudore e le partite contano molto di più.
Protagonista è Jace (Isaiah R. Hill), giovane promessa di grande talento e belle speranze, tirato su da una madre single (Shinelle Azoroh) che spera di vederlo sfondare in NBA. Ad aiutare Jace, dopo un primo impatto un po’ difficile, arriva Ike (O’Shea Jackson Jr.), ex promessa della pallacanestro che, per sfortuna e per la sua testa troppo calda, è cresciuto per diventare un magazziniere con figlio in arrivo, che a tempo perso coltiva il sogno di tirare su nuovi campioni nei panni dell’allenatore.
Questo il setting iniziale, a cui dovete aggiungere un po’ di elementi molto classici, come i compagni di scuola (alcuni che diventano amici, altri che diventano nemici), le partite, gli allenamenti, i sogni, il racconto di formazione del giovane eroe che trova un mentore capace di coltivare le sue qualità e smussare i suoi spigoli.

Se state pensando “beh, la solita roba”, dovrei effettivamente dirvi di sì, ma non è necessariamente un male. Swagger sa di stare mettendo in scena “quel tipo di storia” e non si sottrae alle sue responsabilità. Il fatto che Jace sia un ragazzo talentuoso ma orgoglioso e impulsivo, bisognoso di una guida, e che Ike sia a sua volta un mentore che sa quello che serve al protagonista, ma che intanto deve anche risolvere le sue questioni personali, è un tipo di dinamica che abbiamo visto tante volte, e che peraltro abbiamo incontrato anche di recente, proprio in ambito sportivo: se ricordate, parlando di The Mighty Ducks: Game Changers e di Big Shot, serie teen-sportive di Disney+, ci siamo già trovati a fare discorsi molto simili.
Se però in quel caso si parlava di serie espressamente pensate per i ragazzi, con Swagger il tono sale leggermente, a comporre un drama più adulto in cui problemi veri e veri sogni premono in ugual modo sui protagonisti. Swagger (la cui traduzione letteralmente potrebbe essere “spavalderia, fiducia in sé stessi, ai limiti dell’arroganza”) è anche e forse soprattutto una serie sul sogno americano, o su una certa versione di esso, in cui gli eroi della storia sono chiamati a uscire da una condizione difficile e marginale usando il loro talento, la loro fatica, la loro voglia di impegnarsi, sapendo che il sistema ha molte lacune, ma lascia comunque lo spazio per sfondare a chi effettivamente ha i numeri per farlo.

Non pensiate però che sia un percorso lineare o troppo zuccheroso. Gli autori di Swagger sanno di scrivere nel 2021, dove quello stesso sogno americano ha ormai mostrato più di una crepa, e così nella loro storia non c’è solo il sudore come prospettiva di un successo inevitabile. C’è per esempio una grande attenzione per il mondo dei social e per il pericolo che essi rappresentano in termini di stress e pressione sulle spalle di ragazzini delle medie, che faticano a non basare la loro intera esistenza sulla base di ciò che di loro si dice online. C’è il tema dell’influenza dei genitori, che possono fare da sprone ai loro figli, ma anche costringerli dentro dinamiche tossiche in cui il successo nello sport diventa l’unico metro di giudizio sui ragazzi in quanto persone. E c’è poi la maggiore articolazione di quello stesso sogno americano, visto attraverso il punto di vista di una comunità nera dove uno come Jace può essere ammanettato senza alcun motivo per poi trovare la libertà solo perché la sua faccia è diventata virale, dove una ragazzina dal futuro apparentemente assicurato può vedere minata la sua salute dalle attenzioni morbose del medico della squadra, e dove quello stesso sogno di riscatto può appartenere non solo al protagonista, ma anche a un altro ragazzo, ugualmente talentuoso ma portoricano, che vive lontano dalla famiglia al solo scopo di sfondare nello sport per non ritornare nella povertà.
Quest’ultimo tema, quello di una guerra fra poveri costretti a contendersi le briciole di un sistema che è sì disposto a premiare i campioni, ma anche ad affossare tutti quelli che campioni non lo sono e che magari hanno la sfiga di non avere la pelle del colore giusto, è uno degli elementi più oscuri della serie, che non disdegna di indulgere nella più classica epica sportiva, ma non dimentica mai di inserire i suoi personaggi all’interno di un contesto che ne precisa, ne limita, e ne ridefinisce le ambizioni.

Come detto, però, accanto a questi arzigogoli filosofici c’è anche tanto campo: che si tratti di allenamenti o di partite, la regia è abile nel seguire le evoluzioni dei suoi giovani prodigi, e per quanto si possano vedere piccoli e grandi artifici retorici (chi gioca a basket o ne è molto appassionato/a credo percepirà le scene sportive come abbastanza romanzate), c’è un grande senso del ritmo, del movimento, e una bella abilità nel mettere in scena la plasticità dei corpi e la forza di certe giocate, anche grazie al fatto che il basket è uno degli sport più facili da rappresentare sullo schermo (e non a caso una delle discipline più adatte al mezzo televisivo in generale).
In particolare, cito una scena del pilot in cui Jace e Ike si trovano a fare importanti discorsi sulla vita mentre il ragazzo tira una serie di tiri liberi, tutti riusciti, con la camera che senza mai staccare gira intorno ai due personaggi come a costruire un recinto di talento e crescita, uno spazio a due ben circoscritto e preciso che sarà una delle chiavi principali dello show. Non so se c’è di mezzo qualche trucco digitale o se effettivamente gli è riuscita così, magari dopo un tot di tentativi, ma è una scena che resta negli occhi.

Insomma, Swagger è un serie che non punta ad inventarsi granché, ma che prende alcune situazioni e dinamiche classiche dei romanzi di formazione e dei racconti di sport, per aggiornarle a una versione contemporanea che limiti il rischio di zucchero eccessivo, trovando un buon equilibrio e senza strafare.
Non sarà la rivoluzione, ma va anche bene così.

Perché seguire Swagger: per il racconto solido e i personaggi credibili.
Perché mollare Swagger: nel caso non piacessero per nulla quei due elementi, sappiate che il tasso di basket e rap è parecchio alto.



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