4 Marzo 2022

Euphoria 2 season finale – Il solito entusiasmo… e qualche dimenticanza di Diego Castelli

Un commento conclusivo alla seconda stagione di Euphoria, piena di scene memorabili e interpretazioni pazzesche, giusto con un paio di appunti

On Air

ATTENZIONE! SPOILER SU TUTTA LA SECONDA STAGIONE DI EUPHORIA

L’ansia da prestazione con cui mi accingo a scrivere del finale della seconda stagione di Euphoria è direttamente proporzionale non solo all’amore che il mondo seriale tributa quotidianamente a questa serie, ma anche alla pura e semplice quantità di spunti – narrativi, visivi, culturali, filosofici – che lo show mette in campo ogni volta che decide di apparire sullo schermo.

Ce lo siamo detto più volte, ridiciamolo in breve a mo di recap: Euphoria racconta i giovani agli adulti, e per farlo trasforma e trasfigura le tensioni che percorrono le loro vite (a volte tensioni “grosse sul serio”, a volte tensioni “da ragazzini”) in una messa in scena debordante, carichissima di idee, di pathos, di oscillazioni fra melodrammatiche scene madri e altri momenti molto più silenziosi e intimisti. Euphoria è concepita come una serie dichiaratamente d’autore, saldamente guidata dallo sguardo del suo creatore Sam Levinson, che ha l’obiettivo di far percepire in maniera iperbolica e quasi epidermica ai suoi spettatori adulti, le difficoltà di un mondo giovanile che altrimenti verrebbe quasi sempre racchiuso in cornicette piene di supponenza e pregiudizio, in formule tipo “Sti ragazzi non combinano niente”, “sti giovani stanno sempre a preoccuparsi di cose senza importanza”.

Questa è Euphoria per come l’abbiamo sempre conosciuta, e il suo approccio in questo paio d’anni fra prima e seconda stagione non è cambiato. Quello che si è visto, però, è il tentativo di far progredire in modo importante e strutturato le varie linee narrative, al punto di arrivare alla termine della seconda stagione in cui alcune storie sembrano effettivamente “finite”, anche se quelle stesse conclusioni possono aprire la porta a nuove riflessioni di carattere almeno in parte diverso.

Vale la pena parlare del finale della seconda stagione di Euphoria proprio in questi termini, non nel senso di chissà quale rivoluzione nell’approccio della serie, ma con la dovuta attenzione al modo in cui certe premesse della prima stagione hanno portato a determinate esplosioni della seconda.

La cosa che colpisce di più di questo episodio, e la fonte delle poche critiche che si possono fare a questo finale, è che c’è pochissima Rue. La protagonista interpretata da Zendaya, da sempre perno della serie nonché punto di vista privilegiato sugli eventi, è qui soprattutto spettatrice, a parte alcuni flashback che, in maniera un po’ ossessiva nel corso della stagione, ci hanno riportato al momento in cui, davanti a una piccola folla in lutto, la ragazza parlava del padre a poche ore dalla sua morte. Morte del padre che, in maniera abbastanza esplicita, è alla base di parecchi dei problemi di tossicodipendenza di Rue.

Ma appunto, il season finale si occupa relativamente poco della protagonista (e di quella che per lunghi tratti era parsa la sua co-protagonista, cioè Jules), per concentrarsi invece su diversi altri personaggi, nello specifico Lexi, Cassie (& co.), Nate e Fez.

Le ultime due puntate della seconda stagione, fra le altre cose, hanno offerto una delle pagine migliori di tutta Euphoria, cioè la messa in scena dello spettacolo teatrale scritto da Lexi, con il quale la ragazza ha raccolto, rielaborato e buttato fuori tutto il malessere proveniente dal suo sentirsi un’emarginata, la sorella piatta e sfigata di Cassie. Quello che vediamo effettivamente sul palco è una riproposizione in salsa teatrale di molte delle vicende che noi abbiamo seguito in Euphoria, con un nuovo punto di vista (quello di Lexi) e un nuovo linguaggio (quello del palcoscenico), che in pratica rappresentano una serie nella serie. La possibilità, per i personaggi, di “vedere Euphoria insieme a noi”.

Il percorso di Lexi in quanto autrice è profondamente catartico per lei, e questa funzione salvifica del processo creativo viene riconosciuta espressamente dalla stessa Rue che, riscoperta l’amicizia con Lexi, le esprime la sua invidia per ciò che è riuscita fare. È suonato un po’ come “avevamo problemi molto simili, poi io mi sono drogata e tu sei diventata un’autrice, hai vinto tu”.

Ovviamente, però, c’è chi non l’ha presa benissimo. Aspettavamo da settimane una “vera” esplosione di Cassie, la ragazza più bella e sexy della scuola, ma anche la più fragile e instabile, punto focale di tutto il discorso sui giovani tale per cui, in Euphoria, non esiste un solo personaggio a cui le cose vadano davvero “bene”, perché parte dell’essenza della gioventù (ma forse della condizione umana in generale) è riuscire a concentrarsi benissimo su quello che ci manca, e troppo poco su quello che abbiamo già e che magari altre persone non hanno.

In questo senso, dopo un’intera stagione di amore proibito per Nate, di bugie e di sotterfugi che l’hanno fatta stare malissimo, Cassie vede rappresentata sul palco un’interpretazione della sua vita (frivola, sciocca, sessualmente carichissima) che non può accettare, soprattutto perché esibita di fronte a un’intera scuola che già pensa quello di lei, e quindi sbrocca completamente, salendo sul palco e interrompendo la rappresentazione in una scena madre urlatissima e svalvolatissima, per la cui credibilità dobbiamo solo applaudire alla bravura di Sidney Sweeney, un’attrice così brava a fare l’oca lacrimosa, che ci viene da pensare che sia così anche nella vita, anche se con ogni probabilità non lo è (la croce di essere così talentuose è che poi la gente ti crede “troppo”).

Il twist inaspettato, se vogliamo, riguarda il fatto che proprio da questa definitiva esplosione, quando intorno non rimane altro che terra bruciata (mi si perdonino le metafore belliche in questo periodo), nasce lo spazio per una riconciliazione con Maddy, che capisce di essere unita a Cassie da un legame molto più profondo di quello che pensava: l’essere vittime delle bugie di Nate.

E veniamo proprio a lui, il ragazzo bello e terribile che fa girare il cuore di molte, e le palle di chiunque altro. Dopo essere stato di fatto il cattivo della serie per lungo tempo, a Nate viene concessa un’occasione di redenzione che deve necessariamente passare nel riconoscimento del vero cattivo, cioè il padre Cal, traditore e stupratore che in questa stagione decide di lasciare la famiglia per vivere la sua fluidità sessuale con una libertà mai sperimentata prima.

Vale la pena sottolineare che, in una serie complessa e stratificata come Euphoria, nemmeno Cal è un cattivo “assoluto”, perché negli scorsi episodi abbiamo conosciuto le difficoltà vissute da ragazzo per le sue preferenze sessuali, una gabbia trasformatasi in trauma che in qualche modo, se pure non “giustifica” certe sue malefatte successive, per lo meno offre al personaggio la possibilità di non essere cattivo&felice, ma per lo meno cattivo&infelice.

Come passo finale della sua redenzione, cominciata già qualche episodio prima, Nate decide di denunciare il padre alla polizia, fornendo alle autorità le prove video dei suoi crimini. Il succo, dal suo punto di vista, è punire il padre che sperava di rovinare la sua famiglia senza subire alcuna conseguenza. E invece…

Intendiamoci, non è che ora Nate sia diventato un buono, anzi. Resta circondato da un’aura di oscurità che, per esempio, gli fa caricare una pistola a tamburo mentre si reca all’incontro col padre. Pistola che poi non userà, limitandosi a mostrarla quasi per sbaglio, ma che ci dà l’idea di un ragazzo che riesce a rispondere alla violenza solo con la violenza, al dolore solo con la vendetta. Nate ha chiuso un capitolo della sua storia, ma ce ne sono ancora altri da raccontare.

E parlando di violenza non si può non arrivare a quella che, a parere mio, è la scena più potente e toccante di tutto il finale.

Parliamo naturalmente di Fez, lo spacciatore gentile che, pur essendo un criminale, ha sempre cercato di non fare del male a nessuno che non lo meritasse, che ci ha rivelato la sua natura di padre/fratello adottivo di Ash, e che negli ultimi episodi ha intessuto con Lexi un’amicizia tenera e delicata, culminata con una telefonata in cui si favoleggiava di figli e di case nella prateria.

Ebbene, se altri personaggi hanno avuto occasione di riscatto e (minima) serenità, per Fez crolla tutto. Sul divano di Fez, Custer cerca di farlo confessare circa l’omicidio di Mouse e, malgrado i nostri mangino la foglia e provino, per bocca di Faye, a scaricare la colpa su Laurie, la polizia è già quasi alla porta dell’appartamento.

Da qui in poi è una rapida discesa agli inferi. Fez era vestito di tutto punto e stava per andare a vedere lo spettacolo di Lexi, ma non ci riuscirà mai. Ash, con la temerarietà non sempre centratissima che gli è propria, uccide Custer con una coltellata alla gola e costringe così Fez al sommo sacrificio: in mezzo secondo, Fez decide di prendersi la colpa dell’omicidio per salvare Ash, ma il ragazzino non ci sta. Lo vediamo caricarsi di armi e barricarsi in bagno, nella vasca, proprio nel momento in cui entra la polizia.

La scena è straziante, con Fez che urla il nome di Ash in mezzo alle pallottole, e la strenua difesa del ragazzino che arriva anche a colpire un poliziotto, ma che alla fine viene colpito e ucciso mentre Fez lo guarda da terra, anch’egli ferito.

È l’ultima cosa che vediamo di Fez prima della fine della stagione, a rimaniamo col terribile dubbio di cosa sarà di lui: la prigione mi sembra scontata, ma sarebbe facile prevedere il crollo emotivo di un uomo che aveva pochissime certezze e un insperato equilibrio, retto però da un ruolo virtualmente genitoriale che ora gli è stato strappato via. Lexi pensaci tu che sennò qui finisce male.

Ok, abbiamo finito le vicende degli altri personaggi. E Rue?

Ecco, parlando di Rue dobbiamo accorgerci non solo, o non tanto, che nel doppio finale è stata relativamente poco presente (oltre ai citati flashback ci sono le scuse a Elliot, che le canta una canzone di quattro minuti, non due, non tre, quattro), quanto piuttosto il fatto che, in effetti, qualcosa manca.

Buona parte della seconda stagione di Euphoria, come da tradizione, è stata legata a doppio filo alla salute di Rue, alla sua ennesima discesa nell’abisso della tossicodipendenza, con successiva risalita una volta toccato il fondo. O quello che in quel momento era identificabile come fondo.

In questo percorso abbiamo visto scene surreali e altre dolorosissime, sia prima che dopo la decisione di uscire dal tunnel, e abbiamo visto Zendaya al suo meglio, inteso proprio come ampiezza e varietà delle sue capacità interpretative. Dalla rabbia nei confronti di Jules al dolore fisico nei primi giorni della disintossicazioni, arrivando alle buffissime faccette divertite nell’assistere alle mattate di Cassie durante lo spettacolo teatrale.

Quindi insomma, c’è un percorso preciso, c’è una grande abilità attoriale e di scrittura delle singole scene, c’è perfino quello che potrebbe essere un vero finale, con Rue che, voce fuori campo, ci avverte che è rimasta pulita fino alla fine dell’anno scolastico, una buona notizia giusto appena adombrata da una domanda che a quel punto nasce spontanea: e dopo la fine dell’anno scolastico?

Il vero problema, però, l’unica critica “sentita” che possiamo muovere a questa stagione, è che sono rimaste indietro almeno un paio di questioni importanti, ma diciamo anche tre.

La prima riguarda Laurie: la pacata, buffa ma pericolosa spacciatrice aveva dato a Rue dei fondi con i quali diventare spacciatrice a sua volta, e Rue non è stata in grado di portare a termine il compito. Che questa vicenda non abbia avuto alcuna conseguenza è un evidente buco di sceneggiatura, e anche l’occasione mancata di farci vedere cose interessanti. Questo non impedisce alla terza stagione di coprire l’ammanco, però insomma, mancano due anni se ci va bene.

Il secondo problema è legato proprio alla riabilitazione di Rue. Due episodi prima avevamo visto sua madre piangere al telefono alla notizia che non c’era spazio in clinica per la figlia, e non c’era modo di fraintendere il significato profondo di quella sequenza: l’inizio del percorso di guarigione di Rue sarebbe stato presto minacciato da una mancanza di strutture a monte del processo.

Questa cosa, però, nei due episodi finali svanisce nel nulla, e sentire la voce di Rue che racconta di un finale d’anno sereno sembra proprio una smentita rispetto alla forza di quella scena, che ne esce inevitabilmente svilita.

Il terzo problema riguarda il rapporto con Jules. La loro storia d’amore è la spina dorsale di tutta Euphoria, che anche in questa stagione ha regalato scene potentissime da questo punto di vista.

Ebbene, può avere senso la scelta, da parte di Rue, di allontanarsi da questa relazione che, non per colpa di Jules, è diventata pericolosa, tossica, azzoppante. In fondo è una riflessione tipica dei percorsi di uscita dalla tossicodipendenza: quando Rue pensava di rimanere pulita solo per amore di Jules, ha fallito, mentre può avere una vera chance nel momento in cui decide di staccarsi da tutto ciò che può farle male anche involontariamente, per concentrarsi solo su se stessa e il suo benessere.

Allo stesso tempo, che la montagna di sensazioni e storie legate a questo amore possa venire liquidata con una brevissima frase di Rue alla fine dello spettacolo di Lexi, è sembrata una scelta quanto meno frettolosa.

La mia impressione, per nulla basata sui fatti ma così, per parlare fra noi, è che Sam Levinson avesse in mente tante cose per questa stagione, e avesse una visione chiara e in qualche modo “urgente” del doppio episodio incentrato sullo spettacolo teatrale di Lexi.

Questa sorta di necessità artistica, di foga creativa dell’autore, ha un po’ cozzato, probabilmente, con alcune richieste di spazio poste da HBO, e questo ha finito col far perdere qualche pezzo per strada, con la consapevolezza che poi ci sarebbe stato tempo per recuperarlo, ma anche con la scarsa considerazione del fatto che, se un problema di scrittura me lo risolvi a due anni di distanza, per due anni resta comunque un buco, e si sente.

Queste ultime considerazioni erano doverose proprio perché una serie eccezionale come Euphoria (nel senso proprio di “eccezione”) non dovrebbe essere sporcata da problemi che alla fine sembrano fin troppo banali per lo show che è.

Questo non toglie nulla però, al suo carattere di eccezionalità. A due anni dalla messa in onda della prima stagione, lenita solo dalla produzione di due ottimi speciali, Euphoria si è ancora una volta confermata come una delle produzioni televisive più ricche, stratificate, coraggiose e impattanti del piccolo schermo, nonché l’ennesimo tentativo riuscito, da parte di HBO, di non finire in secondo piano rispetto alle ormai mastodontiche piattaforme di streaming.

Più che uno spaccato del mondo giovanile, Euphoria ne è una sua sublimazione, una traduzione di linguaggio per persone che non appartengono a quel mondo, l’applicazione di uno sguardo autoriale estremamente personale (quello di Sam Levinson) a una materia universale.

Euphoria è una serie densa, morbosa, peccaminosa, erotica. Ma anche sottile, delicata, amorevole, luminosa, perfino spirituale. È un calderone di sensazioni e spinte contrastanti, che in fondo, solo per questo, è la perfetta metafora di un’età di subbuglio, speranze, gioie, dolori e delusioni.

Vedremo quanto dovrà passare prima di vederne un altro po’. Quello di cui siamo sicuri (oddio, speriamo) è che si prenderanno il tempo necessario affinché la prossima stagione sia ancora ciò che Euphoria riesce a essere praticamente in ogni minuto di ogni puntata: semplicemente memorabile.

Argomenti Euphoria, HBO


CORRELATI