13 Aprile 2022

Severance season finale – Promesse mantenute di Diego Castelli

Severance – Scissione ci aveva colpito subito, ma alla fine della prima stagione possiamo dirlo senza paura: che bomba!

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SPOILER SU TUTTA LA PRIMA STAGIONE DI SEVERANCE – SCISSIONE

Cos’è una persona?
Non intendo un essere umano, che può essere definito abbastanza facilmente in termini biologici ed evoluzionistici.
Una persona. La sua identità. Il concetto che sta oltre il confine fra un animale senziente e l’ingranaggio di un meccanismo più ampio, di una comunità, di un tessuto sociale e culturale.
Domanda filosofica che probabilmente è stata posta da chissà quanti pensatori, ma siccome noi siamo più terra terra e ci occupiamo di serie tv, oggi ci accontentiamo della risposta che ci dà Severence (per gli amici Scissione), arrivata a conclusione della prima stagione su Apple Tv+.

Per Severance sono sostanzialmente due gli elementi che fanno di un essere umano una persona: il ricordo e la sete di conoscenza.
Se tu prendi un uomo o una donna e manipoli la loro mente in modo da ottenere due diversi set di ricordi, uno relativo a un’intera, normalissima esistenza, e l’altro più compatto, circoscritto alla vita dell’ufficio, quello che ricavi sono due persone diverse, che pensano in modo diverso, sentono in modo diverso, e cominciano a pensare al proprio sé parallelo in termini di concreta alterità.
Da nessuno dei due però, e specialmente da chi di ricordi ne ha meno, puoi togliere la sete di conoscenza, quella spinta insopprimibile verso la comprensione dell’ignoto che a volte può apparire come un passatempo, e in altri casi diventa la condizione necessaria per la felicità e la stabilità mentale.

Quando poi i due piani vengono sovrapposti, quando piccoli bit di informazione relativi a un’identità scivolano nell’altra, il gioco delle parti non funziona più, la scissione traballa, si crepa, e la persona non può non desiderare quella che forse è la terza caratteristica fondamentale della persona: la sua manifesta, autoconsapevole unicità.

Ai tempi della recensione della doppia premiere di Scissione, ci eravamo concentrati molto sulle sue valenze sociali, culturali e politiche, sul suo raccontare un mondo del lavoro alienante e brutalmente standardizzato, un capitalismo totalizzante che non solo spinge per spersonalizzare la propria manodopera, ma cerca perfino di convincerla che è la cosa migliore per lei.

Non stiamo a rifare lo stesso discorso dell’altra volta, tanto è ancora lì se volete leggerlo, ma possiamo comunque dirci che queste riflessioni non sono mai scomparse da Severance, rimanendo la base concettuale (comprensiva, come poi abbiamo visto, di un meccanismo di idolatria nei confronti dei leader-imprenditori, che fa suonare più di un campanello se paragonata con certe figure di miliardari-guru della nostra realtà) su cui costruire un discorso apertamente politico-industriale, che arriva alla lotta di classe.

(Fra parentesi, il fatto che un discorso del genere sia imbastito da una serie prodotta da Apple, che non è certo il marchio più limpido e innocente quando si tratta di condizioni dei lavoratori, fa brillare decine di cortocircuiti, ma vabbè, tema per un’altra volta).

Visto che però è la seconda volta che parliamo di Severance, oggi mi interessava di più concentrarmi su un elemento personale, individuale, che nei primi due episodi si vedeva meno, in maniera peraltro comprensibile: le prime puntate servivano a descrivere il setting della storia, rendendo quindi più evidenti le sue componenti strutturali, ma quando poi ci si mette a raccontare i singoli personaggi, e lo si fa così bene, è inevitabile che l’attenzione si sposti anche verso le loro specifiche individualità.

A ben guardare, Severance di tempo se n’è presa parecchio, forse perfino un po’ troppo, prima di arrivare a un finale che sparigliasse tutte le carte, ma a conti fatti è un peccato perdonabile proprio perché la conoscenza intima delle differenze fra i due piani (dentro e fuori l’ufficio) ci è servita ad aumentare l’impatto emotivo di tutto quello che vediamo nell’ultimo episodio stagionale.

La puntata, strettamente collegata al finale della precedente, ci racconta quello che succede dopo che Dylan è riuscito a disattivare il chip che i suoi colleghi hanno nel cervello, permettendo alle identità normalmente manifestabili solo all’interno della Lumon di esistere anche al di fuori delle sue mura.

Finché Dylan mantiene la presa contemporanea sulle due leve dedicate, Mark, Helly e Irving (o meglio, le loro versioni della Lumon) potranno aggirarsi anche all’esterno, scoprendo cosa c’è nel mondo che finora non gli è mai stato permesso di vedere.

Dylan non fa molto in questa puntata, visto che è semplicemente quello che tiene l’interruttore acceso, dall’inizio alla fine dell’episodio. Però lui è anche stato il simbolo più evidente della forza della Verità: era l’impiegato modello, quello più pacato e meno problematico, quello che più degli altri godeva dei piccoli bonus scientificamente elargiti dalla Lumon per tenere a bada le sue truppe, ma è anche l’uomo che, dopo aver visto di sfuggita il proprio figlio esterno dall’azienda, non è più in grado di dimenticare.
Ancora una volta, bastano pochi brandelli di ricordo e di conoscenza per trasformare completamente una persona, i suoi desideri, gli scopi del sua agiro e la determinazione nel perseguirli.

La storia meno dirompente, in termini generali, è quella di Irving, che scopre la sua passione per la pittura, ma soprattutto si scontra con la dura realtà di un Burt che, fuori dall’ufficio, ha un compagno di vita che lascia Irving col cerino in mano. Una parentesi molto personale, poco determinante per i destini complessivi dei personaggi, ma comunque assai toccante.

Mark si ritrova in una festa per il libro del cognato (e che scopre proprio in quel momento essere suo cognato), comincia a rimettere insieme i tasselli della sua vita, scopre di essere fratello e zio, e si imbatte nella Cobel, che proprio sentendosi chiamare così da Mark capisce che qualcosa non torna e si accorge del problema dei dipendenti fuggiti nei loro stessi corpi. Nel finale, poi, Mark ha la possibilità di urlare al mondo la sopravvivenza della moglie, confinata nei panni della psicologa dentro la Lumon, un attimo prima che la sua coscienza venga nuovamente spenta.

Helly, dal canto suo, è quella che ci porta più sorprese, perché scopriamo che proprio lei, il personaggio più refrattario alle regole interne dell’azienda, la donna che a un certo punto tenta perfino il suicidio pur di fuggire ai meccanismi oppressivi della Lumon, non è altro che una diretta discendente del fondatore stesso della ditta. Il suo compito, trovatasi improvvisamente al centro di un’attenzione inaspettata, chiamata a fare un discorso pubblico per elogiare l’operato dell’azienda e rilanciarne le prospettive future, è quello di raccontare la Verità al mondo, denunciando i crimini della Lumon. E anche lei, come Mark, ci riesce, anche se ancora una volta, sempre uguale a Mark, non sappiamo cosa effettivamente accadrà un attimo dopo, quando la bomba sarà stata sganciata ma, contemporaneamente, la coscienza della Helly-impiegata sarà stata nuovamente sopita.

Un discorso di individualità, dunque, ma anche un percorso di crescita, che segue direttrici un po’ diverse rispetto al solito. Normalmente, l’eroe o gli eroi della storia cercano una conoscenza che non hanno mai posseduto, che sanno di non possedere, e che sanno di poter trovare da qualche parte. Nel caso di Severance, la conoscenza c’è già tutta, interamente custodita nella mente dei protagonisti, ma va riacquisita, riappropriata, riconquistata.

Il meccanismo è tipico di tutte le storie che trattino di problemi di memoria e amnesie varie (pensiamo anche a The Last Days of Ptolemy Grey, anche lei recentissima e anche lei di Apple TV+), però con una importante variante che ci permette di ricollegare il tema dell’identità e dell’individualità ai concetti economici e sociali dell’inizio.

Qui l’amnesia, la perdita di informazioni, di ricordi e quindi di vera e propria identità, non è l’esito di un processo casuale, di un incidente o di una malattia, bensì il prodotto di un’azione deliberata della Lumon. Quello che Severance racconta è il risveglio di personaggi che inizialmente, e volontariamente, avevano ceduto pezzi della loro identità in cambio di sicurezza, denaro, quieto vivere, e perché sedotti e ingannati da una propaganda furba e mistificatoria.
Il percorso di riappropriazione, un percorso tutt’altro che semplice o a costo zero, passa attraverso la consapevolezza che esistono valori non negoziabili che non possono essere barattati in cambio di mere comodità pratiche, che siano il lavoro stabile o, come nel caso di Mark, il superamento (meglio, occultamento) di un trauma.

Che si tratti di vera e concreta vita lavorativa, o che ci si sposti sui temi della salute mentale nel senso più ampio del termine, Severance ci mette in guarda dalla stessa cosa: il rischio che la scelta di una strada più comoda e/o furbescamente illuminata corrisponda alla perdita di noi stessi o, peggio ancora, alla cessione di noi stessi a qualcuno che si pone come salvatore, salvo poi rivelarsi un controllore e uno sfruttatore.

Potete applicare Severence e il suo concetto di Scissione a quello che volete. Le condizioni di lavoro. Il capitalismo. La pandemia. La guerra e i tentativi di comprenderla. E per quanto Severance ponga delle domande abbastanza precise e offra delle risposte altrettanto precise, la sua ambientazione surreale non impone una visione specifica sulle varie questioni che vorrete porle, dandovi anche la possibilità di farne un uso errato. Per capirci, Severance ci spinge a non rimanere chiusi nei nostri cubicoli, in attesa del prossimo, piccolo bonus sedativo, bensì ad aprirci alla conoscenza, all’alterità, alla vita. Che poi vogliate usare questo suggerimento per abbracciare la complessità del reale e affrontare i vostri demoni, oppure per diventare complottisti, questo sta a voi.

Di fatto, finora abbiamo parlato quasi solo di scrittura, ed era inevitabile. Severance arriva a noi come serie realmente originale, non il reboot di qualcosa, il remake di niente, la trasposizione di alcunché. Si presenta nuda e cruda con un’idea forte, uno sviluppo sorprendente, la capacità di far crescere il proprio ritmo fino a un parossismo finale che ci lascia con la bocca aperta e la violenta necessità della seconda stagione (per fortuna già confermata).

Ma sarebbe ingeneroso non spendere almeno un paragrafetto o due per tutto quello che scrittura non è. Perché Severance (visivamente guidata da un Ben Stiller le cui abilità di regista ormai non fanno più notizia) ha lavorato tanto e bene anche sulla sua messa in scena. Sugli spazi da labirinto per topi in cui è articolata da Lumon. Sulle linee tracciate dalle scrivanie dei protagonisti, che a volte paiono ricordare una svastica. Sulla luce piatta e operatoria che contraddistingue tutti i luoghi in cui la Verità sparisce, per nascondersi nel mondo reale quasi sempre rappresentato come più ombroso e sfumato. Sul potere della lettura, a partire dal libro del cognato di Mark (libro tutto sommato non imprescindibile per il mondo reale, ma immediato libro sacro per chiunque abbia solo quello). Sulla necessità dell’arte (in questo caso pittorica, ma vale per tutto) come finestra sul possibile e sull’impossibile in quanto nutrimenti dell’anima. Sulla recitazione molto precisa di attori e attrici che hanno tutti più di un ruolo da recitare, e che non ne sbagliano uno.

Severance non è una serie “per tutti”, nella misura in cui i codici comunicativi con cui è costruita pretendono una pazienza e un’apertura mentale che non sono sempre disponibili (e non ne faccio una questione fra persone diverse, ma anche fra momenti diversi della vita e della giornata della stessa persona, perché in fondo siamo tutti scissi a seconda di quello che ci è successo o meno nelle ore precedenti alla visione di una serie).

Però, allo stesso tempo, è una serie che può parlare “a tutti”, perché i temi che mette in campo sono universali, racconta di ciò che siamo, di ciò che vorremmo essere e di quello che ci serve per esserlo. Soprattutto, mostra quanto sia importante il mondo in cui viviamo, nella sua complessa stratificazione di stimoli, ostacoli, relazioni, opportunità e vincoli, nella definizione della nostra identità.
Quello che poi decidiamo di fare con questa consapevolezza, sta solo a noi.

Intanto, per il momento, decidiamo di mettere Severance prima in classifica.




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