10 Novembre 2023

Lawmen: Bass Reeves – Taylor Sheridan fa centro un’altra volta di Diego Castelli

La storia vera del primo US Marshal nero è lo sfondo perfetto per una nuova storia nel vecchio West

Pilot

Sono a casa con il Covid (lo so, fa molto 2020, ma io sono un nostalgico) e siccome devo recensire una serie western quale è Lawmen: Bass Reeves, mi è venuta in mente quella classica domanda che capita di farsi fra amici o cazzeggiando sui social, ovvero “se potessi scegliere, in quale epoca ti piacerebbe vivere?”

Ecco, a maggior ragione quando sono influenzato, mi chiedo come la gente possa rispondere qualcosa che non sia “esattamente quella che sto vivendo”. Davvero volete finire in un tempo in cui non c’è la tachipirina, o gli antibiotici? Magari dove non c’è elettricità e acqua corrente? Dove la gente, pure la fanciulla che ti piace e che ti fa girare la testa, non si lava come si deve per settimane?

Dai su, non scherziamo. Lasciatemi il wifi, la medicina moderna e la consegna a casa della spesa.
Primitivi che non siete altro.
Comunque, dicevamo.

Lawmen: Bass Reeves è la nuova serie di Paramount+ (già disponibile anche in Italia), prodotta per Taylor Sheridan e facente parte di quella narrativa western in cui Sheridan ha già creato i vari Yellowstone, 1883, 1923, anche se non parliamo effettivamente dello stesso universo (non c’è rischio che il protagonista incontri personaggi di 1883, giusto per capirci).

Lawmen è in realtà una serie antologica: ogni stagione racconterà la storia vera di uno specifico uomo di legge (da qui il titolo), e la prima è per l’appunto dedicata a Bass Reeves, che nella seconda metà dell’Ottocento divenne il primo US Marshal nero della storia degli Stati Uniti. Un risultato non da poco, considerando che Bass in gioventù era perfino stato schiavo: decisamente un bel cambiamento.

Come detto, Sheridan produce la serie e le mette il suo sigillo di qualità paramountiana, anche se poi in effetti Lawmen è creata da Chad Feehan e diretta da Christina Alexandra Voros (non a caso già regista di vari episodi di Yellowston e 1883).

Bass Reeves è interpretato da un fisicatissimo David Oyelowo, che di recente abbiamo visto in Silo e che aveva interpretato Marti Luther King in Selma.
A lui viene dato il compito di sostenere un personaggio che, nei primi due episodi, attraversa vari anni in cui da schiavo passa a contadino e poi a poliziotto, seguendo un accidentato percorso fatto di alcuni colpi di fortuna, lutti terribili, sudore della fronte, e l’incontro con personaggi che possono cambiare la sua vita, come per esempio il marshal Sherrill Lynn, interpretato dal veterano Dennis Quaid (e arriverà anche l’altrettanto veteranissimo Donald Sutherland).

Al momento di scrivere questa recensione abbiamo visto solo due episodi, e per evitare spoiler ho accuratamente evitato di leggere la biografia di Bass Reeves, per quanto su wikipedia campeggi una sua foto con dei baffi davvero meritevoli di approfondimento.
È facile immaginare, comunque, che le prossime puntate ci regaleranno altre sparatorie, momenti di riscatto in cui Bass farà ricredere molti scettici, e le tante difficoltà che possiamo immaginare per un personaggio che incarna una tale rivoluzione culturale e politica.

I primi due episodi sono buoni, a tratti molto. Per certi versi non si allontanano granché dalla “normale” estetica western, fra scorsi di paesaggio brullo e bruciato dal sole e colpi d’arma da fuoco sparati dietro ripari di fortuna.
Da questo punto di vista, la regista Voros sa di dover stare ben dentro il genere di appartenenza, perché questo si aspetta il pubblico di Paramount, e lo fa con la maestria necessaria ad appagare lo sguardo degli appassionati di western, anche se magari senza andare oltre quella soglia e quel pubblico.

Allo stesso tempo, la serie offre anche qualcosa in più proprio nel racconto psicologico di Bass Reeves. La scena della sua liberazione dalla schiavitù, sulla quale evito spoiler, è costruita con pochi elementi ma con grande forza emotiva, perché mette insieme le speranze e le paure del protagonista con la discriminazione che lo circonda, raccontata non tanto nei termini dell’odio verso i neri (che ai tempi della Guerra Civile non era così smaccato, come ci insegna Alessandro Barbero), quanto in quelli di una sostanziale indifferenza per i loro sentimenti, sentimenti attribuiti a una razza inferiore e per questo manipolabile e ridicolizzabile.

Nel parte restante dei due episodi questo equilibrio fra il western puro e la prospettiva inevitabilmente diversa rispetto agli esempi più classici del genere continua a essere gestito con perizia, dando sempre l’impressione di essere pienamente dentro il western, senza mai farci dimenticare di stare guardando qualcosa di diverso dal solito western.

In attesa di vedere come proseguirà la prima stagione (se dovessero sorgere nuovi elementi interessanti ci risentiamo), vale la pena di concludere con una riflessione di stampo più culturale e politico.

In questi anni abbiamo fatto molte esperienze di quelli che, con termini spregiativi, vengono definiti black washing, o pink washing, o rainbow washing, cioè la pratica di prendere storie del passato per riproporle cambiando l’etnia, il genere o l’orientamento sessuale di certi personaggi, al fine di avere un cast più inclusivo.
A prescindere da come ognuno di noi possa pensarla sulla faccenda (a me solitamente non crea alcun problema, pur riconoscendo l’esistenza di alcuni esempi fin troppo vistosi, fino allo stucchevole), bisogna segnalare anche la presenza di voci contrarie all’interno delle stesse cosiddette minoranze.

Per esempio, non sono pochi gli esponenti della comunità nera (con anche esempi di spicco come Morgan Freeman o Denzel Washington) che nel recente passato hanno espresso un’idea semplice e chiara: invece di una Sirenetta nera, sarebbe più utile mettere in scena le vere storie di persone nere meritevoli di racconto, ma che finora (magari proprio per malcelato razzismo) non sono state prese in considerazione.

È dunque abbastanza ironico che questo appello sia stato colto da Taylor Sheridan, uomo bianco orgogliosamente repubblicano e piuttosto lontano dal mondo woke.
Ma viviamo in tempi strambi, quindi meglio non stupirsi granché.

Resta il fatto che sì, la storia di Bass Reeves è assolutamente meritevole di conoscenza e approfondimento, e anzi sembra incredibile che finora non sia stata raccontata come si deve (Reeves ha avuto molte citazioni e singoli episodi a lui dedicati in varie serie di diverso genere, compresa Watchmen, ma mai un’effettiva stagione che lo vedesse pienamente protagonista, a meno che mi sia perso dei pezzi).
Meglio tardi che mai e, soprattutto, meno male che la qualità sia questa.

Perché seguire Lawmen: Bass Reeves: ben scritta, ben recitata, capace di lavorare bene nel suo genere pur cogliendo le differenze inevitabilmente imposte dal suo protagonista.
Perché mollare Lawmen: Bass Reeves: resta una serie orgogliosamente western, e se quell’estetica proprio non vi va giù, dubito vi farà cambiare idea.



CORRELATI