15 Dicembre 2023

Ti voglio bene Reacher, specie a Natale di Diego Castelli

La serie di Prime Video avrebbe tutto quello che serve per essere criticata. Eppure ci acchiappa, ci diverte, ci coccola.

On Air

All’inizio del primo episodio della seconda stagione di Reacher, la serie tv di Prime Video tratta dai romanzi di Lee Child, il protagonista si trova come suo solito in giro per gli Stati Uniti e sta comprando dei vestiti a poco prezzo rivendendo quelli che aveva addosso, perché lui viaggia leggero e per carità, evitiamo le valigie.

A causa di una piccola incomprensione con la cassiera, il nostro Jack deve prelevare pochi dollari a un bancomat e si mette in coda dietro una donna che sta prelevando a sua volta.
Un occhio ai tremori della signora, alle sue mani insanguinate, e a una macchina appostata poco distante, e Reacher si rende conto che la donna è vittima di una rapina, con il criminale in macchina che tiene in ostaggio suo figlio.

Con la massima calma, muovendosi come se andasse a prendere un gelato, Reacher raggiunge l’auto, si fascia il pugno con la giacca, sfonda il vetro, afferra il bastardo, lo tira di peso fuori dalla macchina, lo disarma, lo pesta, e poi torna a prelevare.

E cosa volete che vi dica, io a uno così voglio bene.

Avevamo già parlato di Reacher ai tempi della prima stagione, quindi non mi dilungherò troppo sui tratti principali del personaggio (ex militare, vagabondo solitario, bravo nell’investigazione tanto quanto nell’azione fisica); sulla fedeltà ai romanzi in ottica di trasposizione sistematica della produzione di Lee Child (la seconda stagione è stratta dall’undicesimo romanzo, Vendetta a freddo); sui complimenti per il casting di Alan Ritchson, ex Aquaman di Smallville dotato di un fisico molto, molto, molto più somigliante al personaggio letterario rispetto all’unica altra trasposizione live action, i film con Tom Cruise (che erano sì divertenti, ma che prendevano un personaggio alto due metri e grosso come un armadio per trasformarlo un fedele di Scientology alto un metro e settanta).

Vale la pena invece di sottolineare che l’impressione che avevamo avuto di una serie tamarra e “vecchio stile”, in cui il creatore Nick Santora riprendeva consapevolmente una struttura narrativa e perfino un’estetica da film action anni Ottanta (e dire che i romanzi iniziano a fine anno Novanta…), sono non solo confermati, ma addirittura potenziati, con lo scopo di ridurre Reacher ad alcuni suoi elementi costitutivi che vengono sbattuti in faccia allo spettatore nella maniera più chiara possibile, in una specie di “se questo ti piace, eccotelo nella sua forma più pura, se non ti piace, ciao”.

Di quella prima scena abbiamo già detto. Per chi arrivasse per caso alla seconda stagione prima di aver visto la seconda, o per chi si fosse dimenticato certi dettagli fondamentali, la (ri)presentazione del personaggio è precisa ai limiti del didascalico: lo è nella descrizione del setting, quest’America di provincia soleggiata e annoiata, dove il crimine esiste in modo endemico, pronto per essere aggredito; lo è nella definizione di certe caratteristiche del protagonista, dalla sua vita spartana alla sua forza fisica, passando per un rigore morale inflessibile (lo si vede dal modo in cui si prodiga per risolvere la questione relativa a pochi spiccioli, gli stessi di cui la commessa non si interessa minimamente); lo è nella creazione di un mini-episodio che affonda le radici in un cinema per l’appunto vecchio di quarant’anni, quello con l’eroe forzuto e integerrimo che usa una preparazione molto superiore alla media per schiacciare letteralmente i malvagi che hanno l’ardire di minare l’ordine costituito sotto i suoi occhi.

Ma non finisce qui, perché se quest’anima vintage fosse confinata a una sola scena si tratterebbe giusto di un omaggio e nulla più. In realtà, nel resto dell’episodio e nei due successivi (la seconda stagione ha debuttato con tre puntate), assistiamo a una vera e propria stilizzazione dell’universo di Jack Reacher, ridotto ai suoi elementi più basilari.

Uno di questi, forse il più importante e quello in cui più si vede quest’operazione di massima razionalizzazione dell’anima del personaggio, riguarda l’investigazione.
La stagione ruota intorno alla progressiva eliminazione dei membri della vecchia squadra di Reacher: una dei suoi vecchi compagni, Neagley (Maria Stern), lo mette al corrente della morte violenta di un commilitone capace e gentile che Reacher stimava molto, e che lo costringe a uscire dall’anonimato per indagare.

Reacher ha una mente investigativa da Sherlock Holmes (la cui accoppiata con i muscoli da bodybuilder è uno dei marchi di fabbrica del personaggio), e in questi primi tre episodi ce la mostra in una maniera che può arrivare a essere perfino stucchevole: il gioco deduttivo con cui Reacher e Neagley cominciano a mettere insieme i pezzi del puzzle, trovandone poi sempre di nuovi, non arriva (neanche lontanamente) alle sottigliezze poetiche dello Sherlock di Moffat, ma è un meccanismo sistematico, rassicurante, quasi didattico nel modo in cui viene descritto, consapevolmente privo di sfumature, così come senza sfumature è il senso di giustizia di Reacher (che non è un burlone, ma nemmeno un antieroe ombroso e complessato, benché in questa stagione senta un po’ di solitudine), o la sua capacità di avere fisicamente la meglio sui suoi nemici.

Ancora più che nella prima stagione (o magari sono io che lo noto in modo diverso, anche perché nel frattempo un romanzo di Lee Child l’ho letto, proprio quello da cui era tratto il primo giro di episodi), l’intrattenimento di Reacher è composto da blocchi ben definiti, ovviamente collegati dalla trama che pian piano si sviluppa, ma comunque costruiti per compartimenti quasi stagni.

Le scene d’azione, le battute a effetto, i momenti di investigazione pura, sono elementi di una grammatica estremamente semplice, che rifugge il guizzo creativo “giusto per”, puntando su una piacevolezza che, consentitemi di usare ancora una volta questo termine, è del tutto rassicurante, una parola che normalmente non si usa per gli action, ma che ha quella precisa funzionw su un pubblico che la associa al bel tempo che fu.

La messa in scena non è da meno: la regia di Reacher è quasi da tv generalista, poco spazio per i fronzoli e massima attenzione alla comprensibilità. Ci si premura di inquadrare spesso Reacher dal basso per accentuare ulteriormente l’imponenza del suo fisico, ma per il resto ci si attiene strettamente al manuale di regia, un manuale finito di stampare nel ’95.

Perfino i flashback rientrano in questo gioco: raccontano la vita passata della squadra i cui membri, nel presente, stanno morendo uno a uno, e lo fanno in maniera lineare, dichiarata, evidente. Ogni tuffo nel passato serve a definire l’unione della squadra, il suo cameratismo, l’abilità dei membri a dispetto di una certa buffa cialtroneria, e lo fa seguendo meccanismi che, di fatto, funzionano da decenni.

È evidente che, arrivati a questo punto, bisogna anche fare un’ammissione: buona parte delle caratteristiche che abbiamo finora descritto sono le stesse con cui, normalmente, bocceremmo una serie.
L’approccio didascalico, l’assenza di particolari guizzi registici, una struttura visiva e narrativa molto rigida e super classica, tutte cose che solitamente critichiamo.

La differenza la fa certamente un po’ di gusto personale, per cui io posso entusiasmarmi per una serie del genere allo stesso modo in cui una persona diversa da me, per motivi però simili, può appassionarsi a Bridgerton.
Ma la fa anche l’approccio: vero che qui cerchiamo spesso l’originalità, ma vero anche che ci piace la coerenza, ci piacciono le serie che fanno certe promesse e le mantengono.

In questo senso Reacher promette al suo pubblico di far tornare indietro il tempo fino a un’epoca di storie più dritte e semplici, senza tornare per forza a stereotipi vecchissimi (avevamo già notato, e la seconda stagione lo conferma, che le donne in Reacher sono più abili e decisive di quanto non lo sarebbero state in molti prodotti anni Ottanta), ma dando a un certo tipo di pubblico la possibilità di abbassare le difese, di farsi cullare da un modo di raccontare la lotta fra Bene e Male che sembrava sepolto, e che invece mantiene ancora una sua bella vitalità proprio perché si vede meno di prima.
Senza contare che, a Natale, questo viaggio nei ricordi è palesemente più apprezzato che in altri periodi.

Per chiuderla con poche parole molto personali, ho guardato i primi tre episodi della seconda stagione di Reacher notando le sue ingenuità, certe facilonerie, certe ossessioni didascaliche nel modo in cui racconta una mente sopraffina dentro un corpo sopraffino, senza ambiguità e sfumature. E dopo aver finito ho detto: “posso avere il quarto episodio per piacere?”

PS per un momento nerd
A un certo punto del primo episodio, uno degli sgherri del cattivo gli comunica che Neagley si è registrata in un hotel come “Sarah Connor”, che è una citazione dalla saga di Terminator. Di per sé non sarebbe niente di eclatante, se non fosse che la persona a cui il tizio riferisce di Sarah Connor è Robert Patrick, ovvero l’attore che ha interpretato il T-1000 in Terminator 2.
Vedi che bisogna volere bene a questa gente?



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