Reacher: su Prime Video la vostra prossima ossessione tamarra di Diego Castelli
Jack Reacher, il gigantesco giustiziere ideato da Lee Child, arriva sul piccolo schermo in una serie, dritta, gustosa, ideale coi popcorn
Era il 1997 quando Lee Child, pseudonimo di James Dover Grant, ex autore televisivo britannico buttatosi nella letteratura, diede alle stampe Killing Floor, in italiano “Zona Pericolosa”, primo romanzo di quella che sarebbe diventata una lunga e fortunata serie letteraria da oltre venti capitoli. Il protagonista del romanzo era Jack Reacher, un ex soldato grosso come un armadio a due ante che unendo abilità investigativa da Sherlock Holmes e uno spiccato talento per i cazzotti divenne ben presto l’eroe ideale da chi, nei romanzi d’azione e polizieschi, cerca soprattutto figure tutte d’un pezzo, con la battuta pronta, e una certa attitudine maschia verso l’esistenza (sì, maschia nel senso repubblicano, del patriarcato, quella roba lì).
Il personaggio di Jack Reacher, che vaga per gli Stati Uniti imbattendosi in province bucoliche ma segretamente marce che richiedono il suo intervento, è già arrivato al cinema, nel 2012 e nel 2016, in due film di discreto successo con protagonista Tom Cruise. E voi capite bene che, considerando che il personaggio letterario è alto un metro e 95 e ha tratti vagamente vichingheschi, trasformarlo in Tom Cruise, attore di grande carisma, per carità, ma pur sempre alto un metro e 70, non rendeva grandissima giustizia all’eroe immaginato su carta.
C’è voluta Amazon per mettere a posto le cose: il protagonista di Reacher, prima serie tratta dai romanzi di Lee Child e basata proprio sul primo libro di cui si diceva poco fa, è Alan Ritchson, che non arriva al metro e 95, ma 1.88 sì, e ha delle braccia che credo siano più larghe delle mie cosce. Aggiungeteci il capello biondo e l’occhio chiaro, e stavolta il Jack Reacher di Lee Child ha davvero raggiunto lo schermo.
Ora metto le mani avanti, perché i romanzi non li ho letti e non so se c’è fra voi qualche lettore/lettrice che sta già scrivendo commenti infuocati sul fatto che no, non è vero, non è aderente perché Jack Reacher non avrebbe mai aperto la portiera della macchina in quel modo (tanto per dirne una).
Il tema, però, è quello di una trasposizione che sia più aderente alla trama dei romanzi (con la possibilità puramente teorica ma commercialmente allettante di venti e passa stagioni di roba), a partire da una fisicità che sia immediatamente riconoscibile, e sulla quale non ci siano enormi dubbi: sfumatura più, sfumatura meno, stiamo guardando Jack Reacher.
Perfino certi limiti attoriali di Alan Ritchson, che conoscemmo a suo tempo come Aquaman in Smallville, e più di recente come Hawk in Titans, sono in realtà perfetti per interpretare un personaggio che viene dall’esercito e mostra al mondo un volto quasi completamente (il “quasi” comunque è importante) impermeabile ai sentimenti e alle loro manifestazioni più evidenti.
Forse mi sono leggermente incartato parlando all’inizio di dettagli che solitamente si mettono nella seconda parte delle recensioni, ma siccome non ho voglia di riscrivere, facciamo che ora metto due punti e specifico una cosa importante: ho sostanzialmente adorato la prima stagione di Reacher.
Qui e là ho letto di persone che l’hanno paragonata a Justified, un parallelismo su cui non faccio commenti perché sapete che Justified è un mio annoso buco che dovrò colmare prima dell’uscita dell’annunciato seguito. Io potrei farvi il paragone con Banshee, anche se Reacher è insieme più ironica e più prettamente investigativo/poliziesca di quanto non fosse la serie di Cinemax (che, per converso, era più raffinata in termini visivi).
Avete comunque capito dove si va a parare: Reacher è una serie tamarra, violenta, in cui si mena spesso e volentieri, e in cui la trama gialla in cui Jack rimane invischiato suo malgrado è in discreta parte un pretesto (comunque efficace) per mettere in scena il suo carisma fisico e militare e la sua abilità nel tirare cazzotti sulla faccia di bulli, trafficanti, assassini e cattivi di ogni tipo. Non ci sono chissà quali vezzi autoriali nello stile improntato dal creatore Nick Santora (un passato in Prison Break e in altre serie di minor fortuna), che però imbastisce un prodotto solido, ben strutturato, con un capo e una coda e una precisa conoscenza di tutto quello che non può mancare in una storia d’azione.
Vale la pena spendere due parole su questo aspetto, perché Reacher, che è uno show di stampo teoricamente vecchissimo, finisce col sembrare paradossalmente originale, una boccata d’aria fresca.
Che sia per la pretesa di dare ai telefilm (per usare un termine sempre meno in voga) un preciso spessore artistico e cinematografico, o per la volontà di costruire prodotti più inclusivi e rispettosi di minoranze e quote varie a prescindere da qualunque altra considerazione, oppure ancora per la pretesa di scrivere racconti televisivi che riescano a comprendere al proprio interno tutta la complessità del reale (si pensi al lavoro fatto da The Wire sul mondo della criminalità e sui rapporti di scontro e incontro con la polizia), il risultato è sempre uno: di serie così dritte e manichee non se ne fanno più.
Questo non significa che Reacher sia un cartone animato per quinquenni, che il protagonista non abbia alcuna sfumatura, che non si affrontino, pur in maniera leggera, questioni sistemiche come quella razziale, o che non esistano donne orgogliosamente e consapevolmente lontane dallo stereotipo ormai sempre meno accettabile della principessa indifesa da salvare (a combattere quell’immagine c’è Willa Fitzgerald nei panni di Roscoe Conklin, agente di polizia che aiuta Jack nella sua investigazione).
Significa però che Santora, con un’operazione del tutto conscia, recupera uno stile di racconto e di architettura morale che sembra venire dagli anni Ottanta. Un mondo in cui i cattivi esistono, sono cattivi-e-basta, e meritano di essere puniti, senza se e senza ma. E tanto meglio se a punirli è un furbo e roccioso giustiziere che lavora fuori dalle noiose maglie burocratiche della legge, uno che quando prende a cuore una causa (qui gli hanno ammazzato il fratello) diventa uno schiacciasassi che tira sotto tutto finché non arriva alla verità lasciandosi dietro una scia di cadaveri.
Uno che, per fare un esempio, alla domanda “stai per uccidere un sacco di gente, vero?”, risponde con “ho già cominciato”. E giù applausi.
Ecco, se seguite Serial Minds da qualche tempo sapete bene quanto io sia felice che, negli ultimi venti-trent’anni, le serie tv abbiano saputo smarcarsi dall’etichetta di passatempo per sfigati, per diventare oggetti di culto e di discussione collettiva, né mi interessa che si torni indietro.
Allo stesso tempo, però, qui nessuno ha mai rinnegato il loro valore di intrattenimento, né ha condannato chi, con mossa commercialmente consapevole, cercava solo quello. Il tema non è mai perché si fanno le cose, ma se si fanno bene o male.
In questo senso, Reacher è una serie sostanzialmente perfetta: vuole intrattenere un certo tipo di pubblico e lo fa con slancio, ritrovando nella sua anima vintage la capacità di smarcarsi dal mondo seriale attuale per offrirci un po’ di ore di divertimento puro, smargiasso, sanguigno. Sì, lo sappiamo che il mondo non è così bianco e nero come ce lo racconta questa serie, e lo sappiamo che esistono prodotti televisivi di ben altro spessore intellettuale e cinematografico. Ma alle volte, fra un drama da Emmy e l’altro, vuoi solo svaccarti a vedere uno show che gli Emmy non li vedrà neanche col binocolo, ma che ogni tot minuti mi fa mettere giù i pop corn per applaudire l’ennesima uscita tamarra o l’ennesimo osso spezzato da un protagonista che non è mica tanto simpatico, ma che tutti vorremmo essere / avere al nostro fianco.
Naturalmente voi sapete che uso “perfetta” come un termine molto circostanziato, parlando di generi e obiettivi, perché poi, naturalmente, Reacher può anche essere respingente. Non solo per certi limiti specifici (per esempio una trama poliziesca che in qualche momento si fa troppo intricata per la serie che è e vuole essere), ma anche per il semplice fatto che l’adesione così netta a un genere e a un’idea di spettacolo porta inevitabilmente a escludere una discreta fetta di pubblico.
Molte persone vedranno in Reacher una serie troppo vecchia e girata in modo troppo semplice, una specie di Walker Texas Ranger del 2022 che potrebbe suonargli perfino ridicola.
Ma se invece siete nostalgici dei Bruce Willis d’annata, e se oggi aspettate con ansia il prossimo film di John Wick, ecco, Reacher vi offrirà proprio quell’intrattenimento lì, e vi permetterà di staccare il cervello da quella famosa, complessa realtà che ormai le serie sembrano sempre voler inseguire, ma da cui a volte, diciamolo senza paura, vogliamo solo scappare.
Perché seguire Reacher: per il paradossale coraggio di recuperare uno stile ormai vetusto, ma che a certe condizioni funziona ancora benissimo.
Perché mollare Reacher: è una tamarrata muscolosa, tutta cazzotti e battute maschie, e di conseguenza non può piacere a chiunque.
PS Mi sono dimenticato di dire che nel cast, in una parte quantitativamente secondaria, c’è anche Kristin Kreuk, la Lana di Smallville, con la quale Alan Ritchson crea di fatto una reunion. La buona Kristin ha 39 anni ma non sembra passato più di un giorno dai bei tempi delle avventure del futuro Superman. Quanti ricordi…