18 Dicembre 2019 9 commenti

Watchmen 1×09: un finale più normale, ma comunque un gran finale di Diego Castelli

L’ultimo episodio scioglie tutti i nodi rimasti, e chiude il cerchio della miglior novità dell’anno

Copertina, Olimpo, On Air

Siamo arrivati alla fine di Watchmen, non si sa ancora se della stagione o della serie, ed è tempo di bilanci. Del finale possiamo dire subito una cosa, e possiamo dirla con pacata serenità: è stato meno epocale e visionario rispetto ad altre puntate. Il che non significa, però, che non abbia fornito spunti e risposte quanto mai interessanti. Semplicemente, mi è sembrato di vederci una certa ansia da chiusura, come se Lindelof, che sappiamo essere uno che digerisce male le critiche, questa volta abbia detto “sai che c’è? Gli spiego proprio tutto, non lascio aperto niente a parte una cosina sul finale, e così nessuno si arrabbia”. Il che è pure legittimo, ma credo che negli anni a venire potremo portare la 1×09 di Watchmen a esempio di come, cercando di riequilibrare una serie molto ardita con un episodio molto “facile”, si rischi in realtà di tradire almeno in parte quanto fatto in precedenza.
Per essere più chiari, l’esigenza di sciogliere tutti i nodi ha tolto spessore ad almeno due elementi: il tema del razzismo da una parte, terminato con un semplice “polverizziamo i razzisti”, e la figura di Lady Trieu dall’altra, di cui veniamo a sapere molte cose in questo episodio, ma senza scavare come si sarebbe potuto nella psicologia di una villain teoricamente molto importante, ma che si svela pienamente in quanto tale solo nell’ultimo episodio.

Siccome però di cose belle ce ne sono comunque parecchie, stavolta un recap lo facciamo, ché viene più facile rispetto a quella folle delizia dell’episodio otto.
La prima cosa che vediamo è Adrian Veidt che registra il suo messaggio per il futuro Presidente Robert Redford, lo stesso messaggio che poi userà per rivelare a Wade la verità sui calamaretti. Veidt non ha ancora spedito su New York il suo mostrone gigante e, mentre si prepara alla sua tragica impresa, una donna delle pulizie al servizio nella sua base svela una riserva di sperma congelato dietro un dipinto di Alessandro Magno, e si auto-ingravida col seme di Veidt dicendo “fanculo Ozymandias”. Capiamo facilmente che si tratta di Bian, la madre di Lady Trieu, che quindi altro non è che la figlia di Veidt.
(Una nota: devo ammettere di aver sperato di vedere davvero Robert Redford entro la fine della serie/stagione, ma anche solo per un cameo. E invece no)

Passiamo al 2008. Lady Trieu, ormai cresciuta, raggiunge il padre in Antartide. Si presenta come la donna più intelligente del mondo, dimostra di sapere tutto del calamaro gigante, e coglie Veidt alla sprovvista, accusandolo di aver avuto un’idea geniale all’origine, senza però essersi mai spostato da lì, visto che ancora oggi fa piovere calamaretti ogni due per tre.
La donna dice di aver pronto un piano più radicale: vuole uccidere il Dottor Manhattan, assorbirne i poteri, e così compiere l’opera di salvataggio del mondo che lui, malgrado le sue abilità, non ha mai portato a termine. Adrian liquida quell’idea come folle, anche perché Jon è su Marte. Ma la figlia ne sa di più: il Dottor Manhattan in realtà è su Europa, e lei ha mandato una sonda nello spazio per confermare che sia lì, sonda che arriverà cinque anni dopo. Il motivo per cui è andata da Veidt non è tanto rivelargli la sua identità, quanto chiedere 42 miliardi di dollari per costruire la centrifuga quantica che le permetterà di prendere i poteri di Jon. Veidt però la rimbalza, perché la stessa nascita di Lady Trieu è un inganno, un furto, il suo genio rubato, e quindi non vuole averci a che fare, né ha intenzione di chiamarla mai “figlia”.

Ci spostiamo su Europa, qualche anno dopo, con Veidt prigioniero dei cloni. Sfruttando un buco scavato col ferro di cavallo, il miliardario fugge dalla cella, anche se viene subito fermato dal Game Warden. Ne esce una colluttazione in cui il Phillips originario ha la peggio: muore infilzato dallo stesso ferro di cavallo, reso appuntito dal molto scavare. Veniamo a sapere che è stato Veidt stesso a dare al primo Mr. Phillips il ruolo di Game Warden, e gli ha fatto indossare una maschera perché “le maschere rendono cattivi”. Ma purtroppo il poverino, nel punto di vista di Veidt, non si è dimostrato un degno avversario.
(Nota: durante lo scontro vediamo Veidt prendere al volo una pallottola. Questa è una citazione pura e semplice dal fumetto, in cui veniva detto che Veidt non aveva superpoteri classici, se non un’intelligenza così vasta da permettergli di lavorare sulla sua mente per potenziare il suo corpo al massimo delle capacità umane, fino a consentirgli di prendere al volo le pallottole. Nella serie questa cosa è lasciata volutamente non spiegata, come puro regalo ai fan. Così è, se vi pare…)

Ad attendere Veidt c’è una navicella senza equipaggio in cui il nostro sale per lasciare la luna. E qui ci sono un paio di chicche: la prima è l’immagine del messaggio lasciato da Veidt sulla superficie di Europa. Avevamo visto solo “Save me” nelle puntate precedenti, e pensavamo fosse rivolto a Jon. In realtà la scritta è “Save Me Daughter”, salvami figlia, e Veidt l’ha lasciata per Lady Trieu, sapendo che a un certo punto la sua sonda sarebbe passata sopra Europa. E la seconda chicca riguarda il metodo di conservazione cui Veidt viene sottoposto per non passare 5 anni di cosciente solitudine spaziale: viene ibernato e ricoperto di una sostanza che di fatto lo rende la statua che Lady Trieu ha in ufficio. Quella non era una statua di Veidt, era Veidt!

Una volta risvegliato, Adrian si trova di fronte la figlia, che gli dice di sapere già che Jon è sulla Terra e di aver riportato lì il padre al solo scopo di mostrargli che anche lei è riuscita a farcela da sola, proprio come aveva fatto lui. E ora è pronta a portare a compimento il suo piano: il Millenium Clock altro non è che la centrifuga di cui gli aveva parlato dieci anni prima.

I due poi si spostano verso la base dei Cyclops, dove Jon è stato trasportato, e Veidt ha modo di fare un breve dialogo con l’edicolante, altra figura iconica del fumetto e non molto sfruttata dalla serie. Ne esce un dialoghetto divertente in cui l’uomo ritiene che Veidt sia ormai scomparso nella giungla a fare Tarzan.

Nella base dei Cyclops, Laurie è sempre prigioniera e assiste all’arrivo di un po’ di pezzi grossi dell’organizzazione. Arriva anche Wade, travestito da cattivo. Poco dopo aver sentito della sparatoria a casa di Angela, ecco arrivare via teletrasporto proprio lui, il Dottor Manhattan, la cui comparsa causa un tuffo al cuore alla povera Laurie che, ricordiamo, è stata fidanzata con lui in gioventù.
Mentre Angela si dà da fare per capire dove Jon è stato portato (non c’è informazione che non si possa ricavare con un po’ di sana tortura), assistiamo al delirante, ultimo monologo di Keene, che è praticamente un manuale del piccolo razzista. Il vero mostro creato da Veidt non sarebbe il calamaro, bensì il presidente Redford, che gli ha tolto le armi e li ha costretti a chiedere scusa per il colore della loro pelle. Per quanto il tema razzismo sia liquidato un po’ troppo facilmente, considerando che per due-tre episodi era sembrano il cardine della serie, bisogna anche dire che questo monologo è illuminante nella sua semplicità, perché ci ricorda come il razzista non sia (o non sia solo) colui che odia il diverso, ma soprattutto colui che se ne sente minacciato. In questo caso un senatore bianco e ricco, che pensa che i neri siano una minaccia per lui e i suoi simili (e non pensa, invece, che quelle mutande da Dottor Manhattan possano essere un crimine contro l’umanità).

Keene ha giusto il tempo di spiegare i passi che hanno condotto i Cyclops a contemplare l’idea di catturare e rinchiudere Jon, prima dell’arrivo di Angela, armi in pugno. La donna cerca di mettere in guardia Keene del fatto che Lady Trieu era ed è molto più avanti di loro, e il fatto che loro pensino di aver “rubato” la sua tecnologia è un inganno da lei ordito per usarli come manovalanza.
Ovviamente Keene non ci crede, obnubilato dalla sua stessa boria. La chiama “black bitch”, una frase detta con tale disprezzo che ci fa subito desiderare la sua morte, e poi entra nella camera che dovrebbe consentirgli di rubare i poteri al dottor Manhattan.
In quel momento arriva Lady Trieu, che con palese noncuranza disarma i Cyclops usando dei magneti, e si scusa con Angela per il fatto che dovrà assistere a quanto sta per accadere.
Lady Trieu parla a tutti i Cyclops e poi apre la camera in cui era entrato Keene, mostrando che si è completamente sciolto. Giusto il tempo di accusare i razzisti delle loro malefatte, ringraziarli per il loro lavoro nella cattura di Jon, e poi li vaporizza.
(Nota: nell’unico punto dell’episodio che non ho ben capito, Lady Trieu dice che solo grazie al lavoro dei Cyclops le è stato possibile catturare Jon senza che lui se ne accorgesse. Non ho ben capito perché. E se anche Jon sapeva tutto, continuo a non capire perché Lady Trieu pensasse di essere “schermata” alla sua onniscienza. Qualcuno mi sa aiutare?)

Durante tutto questo, Jon è immobilizzato nella sua prigione fatta di vecchie batterie al litio fuse insieme, e non può operare al di fuori di essa. Caso vuole, però, che parte della poltiglia in cui s’è trasformato Keene si espanda fino lì. Usandola come “ponte” verso l’esterno, Jon riesce a teletrasportare Laurie, Veidt e Wade nella base di Adrian, mettendoli in salvo. Lady Trieu s’incazza come un riccio, mentre Angela chiede perché non abbia spedito via anche lei. Jon le risponde che non vuole essere da solo quando morirà. Patatone…

Lady Trieu, sempre incazzata ma pragmatica, accende la macchina per la sua trasformazione e attende il completamento del processo. Ci sarà spazio per un ultimo saluto fra Doc e Angela, in cui lei, vedendolo stordito, gli chiederà “Dove sei?” e lui risponderà “Sono in ogni momento che abbiamo passato insieme, tutti in una volta”. Lo ribadisco, patatone!

Ci spostiamo nella base di Veidt, dove il miliardario prova a farsi venire in mente un modo per risolvere la situazione. Non per salvare Jon, che ormai è andato, ma semplicemente per impedire a Lady Trieu di acquisirne i poteri. La frase da segnarsi è “Nessuno che vuole il potere di un dio dovrebbe ottenerlo”: Veidt dice di saperne qualcosa di egomaniaci superintelligenti, e non crede neanche per un secondo alle belle parole della figlia.
Ecco, questo è un punto in cui ho sentito la mancanza di qualcosa, come se la spiegazione di Veidt circa la necessità di fermare Lady Trieu fosse troppo semplice: abbiamo un villain che è la figlia illegittima di una rifugiata del Vietnam, e l’unica cosa che alla fine veniamo a sapere di lei è che è diventata una versione ancora più esagerata ed egoriferita del padre. Diciamo che si poteva scavare di più. Allo stesso tempo, però la frase di Veidt resta importante per il finale con Angela.

Alla fine Veidt svela il suo piano, che a un che di ironico: era stato accusato di usare sempre la stessa idea dei calamari, e ora lui vuole usare di nuovo quell’idea. Congelando una partita di calamaretti prima di teletrasportarli, può trasformarli in migliaia di proiettili con i quali fermare Lady Trieu.
E l’idea funziona: una Lady Trieu ormai pronta ad accogliere il potere supremo, significativamente accostata a un’immagine di Cristo in croce, si ritrova con una mano completamente perforata da un calamaro piovuto dal cielo. La grandinata misto-pesce distrugge il Millenium Clock e uccide Lady Trieu, che riesce a sospirare un “motherfucker” prima di rimanerci.
Intanto Angela, avvertita da Laurie, riesce a mettersi in salvo nel vecchio cinema tanto amato da William.
(Nota: c’è una regola non scritta, nel cinema come nella letteratura, per cui se parli a lungo di un evento epocale, non farlo poi vedere lascia un po’ di amaro in bocca. In questo senso, una Lady Trieu anche solo vagamente azzurognola avrei voluto vederla).

Nel cinema Angela trova proprio il nonno, e anche le figlie, portate lì da Jon prima dell’inizio del patatrac. Il dialogo con William è importante, perché tira molte somme. Il vecchio rivela che è stato proprio Jon a convincerlo a fare un accordo con la Trieu, a riprova del fatto che il Dottor Manhattan sapeva tutto fin dall’inizio. Jon voleva che William lo consegnasse, perché “non si può fare una frittata senza rompere qualche uovo”, frase lì per lì criptica, ma che capiremo meglio pochi minuti dopo.
William chiede ad Angela se, dopo aver inghiottito le sue Nostalgia, ha compreso la sua origin story. Lui è stato ispirato dal Black Marshall che aveva visto al cinema, ed è per lui che prima è diventato poliziotto e poi vigilante. Il problema, però, è che credeva di provare rabbia sotto la maschera, ma invece erano paura e dolore, e quelle sono ferite che hanno bisogno di aria, non possono guarire sotto una maschera.
Questo è un passo fondamentale, che si collega direttamente al cuore (o uno dei cuori) del fumetto. Su carta, Moore decostruiva il mito del supereroe, mostrando vigilanti imperfetti, danneggiati, qualcuno infantile, qualcuno disonesto, qualcuno semplicemente matto. E l’inizio della Watchmen televisiva sembrava aver raggiunto una sorta di equilibrio, con i mascherati integrati nella polizia. Era però solo una finta: in nove puntate abbiamo visto come i poliziotti mascherati fossero solo uno strumento di gruppi di potere tutt’altro che disinteressati, e le successive parole di Veidt e di William sui danni compiuti della maschere chiudono il cerchio. Se vogliamo trovare almeno una morale in Watchmen, è quella di non nascondersi, di non celare i propri sentimenti e le proprie fragilità dietro una maschera o un costume scintillante, molto meglio aprirsi alle persone e al mondo. Ed è qui che Angela offre a William un posto a casa sua: è il momento di curare le ferite.

Nel frattempo, sempre nell’ambito delle ferite da sanare, Laurie e Wade arrestano Veidt, che gli aveva appena offerto la vecchia e mitica nave di Night Owl per tornarsene a casa. Veidt è stupito e irritato, non capisce perché questo cambio di rotta, visto che Laurie sapeva da sempre di lui. E Laurie gli dice che alle volte le persone possono cambiare, o almeno alcune di loro. Anche qui, dunque, una chiusura del cerchio e una possibilità di redenzione e serenità per quelli che sono abbastanza lucidi da coglierla.

Se ho parlato di qualche semplificazione o dimenticanza nel resto dell’episodio, il finale è invece proprio bello, così com’è. Angela torna a casa con William, che dice che Jon era un bravuomo, ma poteva fare di più (un discorso simile a quello di Lady Trieu). Angela trova le uova che lei stessa aveva rotto in cucina, ma ce n’è ancora una sana. E qui le arriva un flash in cui ricorda Jon, il giorno in cui si erano conosciuti, che sosteneva di essere in grado di trasferire i suoi poteri dentro un uovo, così che chi l’avesse mangiato li avrebbe ereditati. Angela si convince che l’uovo che ha in mano sia proprio “quell’uovo”, esce nella zona piscina, lo mangia, si appresta a tentare di camminare sull’acqua… e titoli di coda.
Ora, io capisco la voglia di lasciare qualcosa di non detto, che gli spettatori possano immaginare come vogliono. E magari la scelta si deve anche al fatto di non sapere se ci sarà o meno un’altra stagione. Però diciamoci la verità: per tutto quello che abbiamo visto, mi sembra ovvio che Angela abbia ereditato i poteri di Jon. A tenere banco è il tema del merito. Lo stesso Dottor Manhattan, probabilmente, è insoddisfatto della sua condotta divina, e sappiamo che era scontento sia delle sue prestazioni in Vietnam, sia dei suoi esperimenti come creatore della vita. Niente di più facile, dunque, che volesse trasferire quei poteri a qualcuno di più meritevole. E stesso discorso si può per fare per Lady Trieu: quando Veidt ci dice che non si possono dare quei poteri a qualcuno che li desidera, l’ovvio corollario è che la persona migliore per riceverli sia qualcuno che non li ha mai chiesti, e che per questo potrà usarli con giudizio.
Niente di meglio, quindi, che dare quei poteri ad Angela, una donna nera che in qualche modo chiude anche il cerchio del discorso-razzismo. Che l’intento fosse pienamente “politico” o meno, l’idea che la Watchmen del 1985, in cui a diventare dio era uno scienziato maschio e bianco, si sia evoluta in una Watchmen in cui dio è donna e nera, dice sicuramente qualcosa del cambio dei tempi o, quantomeno, di alcune specifiche necessità di cambiamento.

Bene, siamo alla fine. Come detto, non sappiamo ancora se ci sarà una seconda stagione di Watchmen, anche se sono in molti, noi compresi, a dire che non c’è bisogno, che la storia ha trovato una sua compiutezza così. Allo stesso tempo, ci siamo anche detti come qualche tema potrebbe essere ulteriormente sviscerato, qualche altro discorso proseguito, e non dobbiamo nemmeno dimenticare delle volte in cui io personalmente ho detto “anche basta”, per poi apprezzare la stagione successiva (l’esempio più recente è Big Little Lies).
Quindi diciamo che sono combattuto. Una cosa da dire però c’è. Qui a Serial Minds cerchiamo sempre di valutare le novità seriali da vari punti di vista, e di buona serialità ce n’è di ogni forma e colore. Certo è, però, che abbiamo una predilezione per le serie che rischiano, che provano a raccontare qualcosa di nuovo in modo originale. Più banalmente, serie che ci colpiscano, che ci facciano drizzare le antenne, che ci facciano venire voglia di lunghissimi recap che di certo non scriveremmo per cento altri prodotti.
Watchmen ce l’ha fatta, è riuscita a solleticare il nostro palato ormai assuefatto alla bulimica serialità contemporanea, e per varie settimane è stata un crescendo di invenzioni, intensità, eleganza, sia in termini visivi che di scrittura. Ma soprattutto, Watchmen è riuscita nel compito che pareva impossibile, cioè costruire il seguito di un’opera di culto riuscendo non dico a tenerle testa, ma quantomeno ad apparire degna di lei. E se è vero che ognuno di noi può pensarla come vuole, per una volta permettetemi di fare della statistica: il consenso della critica verso Watchmen è quasi unanime, mentre il concreto rischio, prima del primo episodio, era che venisse massacrata proprio da coloro che aspettavano al varco una serie che osasse giocare nello stesso campo da gioco del capolavoro di Alan Moore. E invece, guarda un po’, Damon Lindelof ha dimostrato di poterci stare, in quel campo da gioco, paradossalmente perché non ci si è avvicinato con l’arroganza di chi vuole strafare, ma con l’umiltà di uno che non dovrebbe avere più niente da dimostrare a nessuno, e invece accetta di prendere un discorso già iniziato non per stravolgerlo, ma per aggiornarlo e modernizzarlo.
Missione compiuta, caro Damon. Noi già lo sapevamo che eri un bravo figliolo, ora lo sa un sacco di altra gente. Poi non si può accontentare tutti, ma tu sii felice.

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