5 Aprile 2011 11 commenti

Battlestar Galactica – Il telefilm-bibbia del nerdismo di mimmogianneri

Ovvero: come imparai ad amare le bombe atomiche (e i viaggi nell’iperspazio)

 

di Mimmo Gianneri

Premessa: non sono un cultore della fantascienza.
Conclusione: ho adorato Battlestar Galactica.

Un caro amico, un nerd da tempi non sospetti – quando i nerd erano considerati semplicemente sfigati e non intellettuali (ti voglio bene, amico, tu non sei sfigato. Erano solo tempi diversi) tanto coinvolto nella programmazione java da riuscire a mangiare un pocket coffe insieme alla pasta con il sugo, si è innamorato così tanto di Battlestar Galactica da rivederne il totale delle quattro serie (circa 50 ore!) per una seconda volta, in blu ray, risincronizzando i sottotitoli ancora non usciti nella versione italiana, uno ad uno, la sera dopo il lavoro, e poi il fine settimana, senza pausa. Lo ha visto tutto di fila nel monolocale condiviso con la ragazza, con il suono in dolby surround a palla. E non si sono mollati. Non è solo un segno inequivocabile di amore: provate a fare la stessa operazione con Star Wars; mentre voi state giocando con una spada laser immaginaria, emettendo improbabili suoni onomotapeici, la vostra consorte sarà già lontana.
Questo, e tanto altro, è Battlestar Galactica.
Battlestar Galactica è la serie che sarebbe dovuta essere Lost. Un’opera compiuta: una Heimat fantascentifica che si sviluppa nel corso di quattro anni fino ad arrivare a un finale risolutivo dove i nodi di fondo vengono svelati in modo coerente e sensato, piuttosto che risolversi con il solito colpo di scena da “Ma dai?! Ma no, guarda tu… bah! Allora lui era uno di quelli che sapeva tutto!”.

Il media franchise. Battlestar Galactica è una serie televisiva nata alla fine degli anni settanta sulla scorta del successo di Guerre Stellari e trasmessa fino al 1980. Nel 2003 i saggissimi Ronald D. Moore e David Eick realizzano un restyling del concept originale, mediante una miniserie in due puntate, della durata di 180 minuti complessivi. Dal successo dell’operazione nasce lo show andato in onda dal 2004 al 2009, di cui la miniserie costituisce di fatto un prequel.

A tutto ciò vanno aggiunti 27 webisodi, due film per la televisione, due spin-off (Caprica, 2010, e Battlestar Galactica: Blood & Chrome, 2011, upcoming), fumetti, videogiochi e quant’altro: siamo nell’era dell’intermedialità, ma anche di wikipedia, dove troverete tutte le informazioni dettagliatissime scritte da persone simili al mio caro amico citato in apertura. Qui parliamo della serie andata in onda dal 2004 al 2009.

La storia. Siamo in un futuro non meglio precisato. Una civiltà umana vive serena nelle Dodici Colonie, un sistema di pianeti con una capitale, Caprica. Le colonie sono come i diversi stati di una nazione federale. Sostanzialmente, degli Stati Uniti molto più grandi. Ogni pianeta ha le sue caratteristiche, i suoi abitanti dall’accento molto caratterizzato, il suo clima. Ormai da decenni le Dodici Colonie sono in lotta con i Cylon (cyloni in italiano). I Cylon sono robot creati dagli umani allo scopo di aiutarli nelle faccende lavorative, domestiche e amministrative, ribellatisi ai loro creatori.
La miniserie pilot inizia quarant’anni dopo l’ultimo armistizio, quando i Cylon si ripresentano inaspettatamente e con un inganno riescono ad accedere al sistema informatico di protezione delle Dodici Colonie, a decimare la Flotta Coloniale e (quasi) a sterminare la popolazione.
I Cylon, infatti, nel corso di questi lunghi anni di pace si sono evoluti: sono ora dei replicanti uguali in tutto e per tutto agli esseri umani: hanno il sangue e le viscere, fanno la pipì e all’amore. Per questo vengono spesso detti, con motivata ingratitudine, “lavori in pelle” (“skin jobs”), come già avveniva in Blade Runner. I Cylon esistono in otto modelli conosciuti, più altri cinque “dormienti”, cioè personaggi che sono inconsapevoli essi stessi di essere dei replicanti (tipo il mio amico nerd, per intenderci). Inoltre i Cylon – fortunelli – alla morte vengono trasferiti “via wireless” in un altro corpo.
La Battlestar Galactica è una base stellare in dismissione ormai ridotta a museo, capeggiata da un vecchio lupo di spazio, il capitano dal nome altisonante e calzante William Adama. Adama si trova costretto a guidare l’esigua flotta di sopravvissuti nel tentativo di fuggire alla soverchiante forza armata dei Cylon e ritrovare una “terra promessa” dove stabilirsi e rifondare la propria civiltà post-distruzione atomica… Ma i Cylon, si è detto, sono tali e quali agli esseri umani, ed esattamente come le cellule dormienti di terroristi che potrebbero abitare nella villetta di fianco alla nostra (se fossimo americani: ricordate il filmaccio Arlington Road – L’inganno?) si nascondono tra di noi, sono i nostri migliori amici, i nostri confidenti, i nostri parenti.
Da qui parte un racconto straordinario per compattezza, tensione emotiva, costruzione stilistica, densità tematica.

Dai, è sempre la stessa storia. Nì. Battlestar Galactica condensa e rinnova molti dei topoi della cultura (audiovisiva) americana: la difesa dell’avamposto dall’accerchiamento dei nemici, la ricerca di una terra dove piantare la propria bandiera, il meticciato come risorsa fondamentale per lo sviluppo della nazione (negli Stati Uniti la destra ha una cultura dell’integrazione, da John Ford a Clint Eastwood, mannaggia a noi). Battlestar Galactica è un lunghissimo film di fantascienza, un prodotto televisivo, un media franchise, un western, un war movie, un thriller politico, un film di spionaggio, un fantasy/religioso…. I cinefili si possono sbizzarrire. I serialminders possono godere di un prodotto che fa dell’ambiguità un motore narrativo e di pensiero piuttosto che di confusione (ogni riferimento a Lost è voluto) e, soprattutto, di un lunga serie televisiva che durante le sue 50 e più ore di programmazione non sbraca.

Battlestar piacerebbe anche a mia sorella (no, forse a lei no). Lo spazio esiguo non mi permette di far luce pienamente sullo scavo psicologico dei personaggi: c’è il combattente gravato dai sensi di colpa che ingrassa a dismisura perchè è incapace di trovare uno scopo per andare avanti durante un lungo periodo di pace; c’è chi, dopo aver combattutto in prima linea per la causa dei coloni e aver messo su famiglia, scopre di essere un Cylon destinato a rispondere al richiamo ineluttabile del programma con cui è stato settato; c’è chi ha incarichi di potere, ma è una donna, fragile e malata, in un contesto guerrafondaio di militari pragmatici. C’è il personaggio straordinario di Gaius Baltar, la cui complessità non è riassumibile in poche battute: vile per indole, Baltar è fin dall’inizio delle vicende insieme vittima e strumento attivo dei Cylon. In un mix di richiami che arrivano fino al reverendo Jim Jones, il suo personaggio ci racconta di un Potere impersonato da figure insieme deboli e carismatiche, furbe e fascinose, ma tutt’altro che infallibili, anzi spesso caratterizzate da un’ingenuità disarmante.

Mi sono innamorato di Scorpion. Chiunque abbia scritto di Battlestar Galactica, vi ha trovato materiale fertile per far prosperare le proprie passioni: gli amanti della fantascienza si ubriacano di viaggi nell’iperspazio, strategie di combattimento da gioco di ruolo e pianeti da esplorare (il mio preferito è il pianeta Algae); i sociologi scorgono proficui parallelismi con l’attualità dell’America frantumata dopo l’11 settembre; i musicologi si sbizzarriscono in cose così. Gli studiosi di gender studies ritrovano figure di donne diverse dal consueto: si pensi al personaggio di Scorpion (Starbuck in inglese). Nella serie degli anni settanta era intrepretato da un uomo, mentre negli anni duemila diventa una straordinaria donna sexy e volitiva. Scorpion è uno dei pochi personaggi nella storia della serialità televisiva a mettere d’accordo femministe e nerd. Non a caso, l’attrice che la interpreta è citata spesso nei sogni erotici di Wolowitz di The Big Bang Theory, nonchè del serialminder Diego Castelli.
Scorpion, insieme a Liv Tyler in La fortuna di Cookie e Natalie Portman sempre, è in cima alla mia lista delle donne per cui varrebbe la pena mollare tutto, ma proprio tutto. Come quando finiamo di leggere un romanzo stupendo, e per un attimo ci diciamo: non leggerò mai più nulla. Così mi è capitato con Scorpion: non vedrò mai più un film o una serie in cui recita Katee Sackhoff; non potrà mai più essere quella donna che ho amato.
Ok, forse sono un po’ come Wolowitz. Aiuto.



CORRELATI