11 Dicembre 2012

Secret State – Gabriel Byrne tra politica e spy story di Marco Villa

Un politico contro servizi segreti e multinazionali. Discreta bombetta.

Brit, Copertina, On Air

Capita che a volte passino inosservate cose anche piuttosto importanti. Capita che le si recuperi per caso, ci si finisca dentro e, complice la breve durata delle serie inglesi, le si finisca in un pomeriggio. Secret State è una serie andata in onda su Channel 4 tra il 7 e il 28 novembre ed è una di quelle cose che meritano una mezza giornata della vostra esistenza mediale.

Protagonista di Secret State è Gabriel Byrne, nei panni di Tom Dawkins, ex capitano dell’esercito, ora vicepremier del governo inglese. Uno affidabile, che riceve attestati di stima continui dalla gente e dai compagni di partito, ma che questi non temono perché non sembra dotato dell’ambizione necessaria a trasformarlo in un rivale vero e proprio.

Le cose cambiano quando accadono due fatti: l’esplosione (con vittime e tragedia) di una raffineria statunitense nel nord dell’Inghilterra e un misterioso incidente aereo in cui perde la vita il primo ministro inglese. Dawkins si ritrova all’improvviso in prima linea: da una parte ha l’onere di reggere il paese in un momento complicato, dall’altra ha l’occasione della vita, quella di poter fare davvero la differenza.

Secret State è una serie che sta a metà tra il politico e la spy story. Vuole raccontare quello che succede al 10 di Downing Street, ma senza nessuna pretesa di realismo: la figura di Tom Dawkins è quella dell’outsider, che nulla ha a che vedere con il mondo in cui si trova e che non fa niente per nasconderlo. Serie politica, quindi, più per ambientazione che per impostazione. Del resto, anche a livello di spy story non siamo perfettamente nel genere. Certo, ci sono diversi servizi segreti in ballo, intercettazioni, macchinazioni e strategie, ma anche in questo caso non possiamo parlare di spy story al 100%. Il motivo è che non c’è un’attenzione maniacale ai singoli dettagli o a qualche elemento ignoto in grado di mettere a posto tutte le tessere della questione, come avveniva – ad esempio – in Rubicon, quella sì spy story da capo a piedi.

Secret State è soprattutto la storia di alcune persone – Tom Dawkins/Gabriel Byrne in testa, ovviamente – che non vogliono accettare che gli interessi di pochi guidino le sorti di un’intera nazione, se non di tutto il mondo. I pochi in questione sono banche e compagnie petrolifere, i cui esponenti ricordano varie volte al protagonista di poter manipolare tutto ciò che vogliono e di non essere in alcun modo legate ai governi o dipendenti da essi, anche quando quote azionarie e simili inezie farebbero pensare il contrario.

Questa serie diventa così un tentativo di mostrare i brutti tempi che stiamo vivendo, in cui anche il più motivato e trasparente dei politici è costretto a piegare la testa e a farsi da parte di fronte a ogni comando della finanza. Il fatto che tutto questo venga raccontato attraverso un meccanismo narrativo fatto di spie e misteri è il vero valore aggiunto. Come ho detto, Secret State non è la storia che vi farà scalzare Homeland dal trono della migliore serie spy, ma è una serie che sa ritagliarsi il proprio spazio proprio in virtù di non essere facilmente codificabile.

E non l’ho ancora detto in modo sufficientemente chiaro: Secret State è bella e merita fino in fondo. E per una volta posso dirlo con sicurezza, non avendo visto solo il pilot, ma tutte le quattro puntate. Di nuovo: quest’anno disgraziato è salvato dagli inglesi, che piazzano un altro bel colpo dopo Good Cop e The Last Weekend (a proposito, The Last Weekend l’ho finita, è malatissima e merita pure essa).



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