15 Marzo 2017 15 commenti

Cara Netflix, l’idea di lasciare le trame in mano agli spettatori fa schifo di Diego Castelli

Posizioni nette, a rischio sberloni

logo

La notizia è di qualche giorno fa, ma non ne avevo ancora parlato perché aspettavo di avere le idee più chiare in merito.
In pratica, Netflix starebbe studiando la produzione di una o più serie interattive, serie cioè che metterebbero a disposizione degli spettatori la possibilità di scegliere come far sviluppare la storia.
Immaginate una Stranger Things in cui poter scegliere la sorte di Barb, una House of Cards in cui dirigere le mosse di Frank Underwood, una The OA in cui influenzare le scelte di Prairie e dei suoi amichetti di yoga, e avrete un’idea della faccenda.

Ebbene, io credo sia una madornale cazzata.
Ed è ovvio che un giudizio del genere, quando il progetto è ancora su carta, si espone a grandissimi rischi e grandissime pernacchie. Un po’ perché da sempre sono un fautore della sperimentazione, e questa sarebbe una sperimentazione abbastanza dirompente; un po’ perché se davvero questo progetto andasse in porto vorrei certamente provare il brivido della scelta; e un po’ perché la cosa potrebbe anche avere un tale successo, da far sembrare vecchi bacucchi tutti quelli che, pochi mesi o anni prima, la bocciavano preventivamente con toni da snob so-tutto-io.

House of cards

Detto tutto questo, di fronte a una novità potenzialmente così grossa, bisogna comunque offrire un qualche tipo di feedback, un sentimento, una reazione.
E la mia reazione è: cazzata.

Il motivo mi pare così palese che mi sento pure a disagio a doverlo spiegare.
In quanto serialminder, abbiamo passato gli ultimi dieci, venti o trent’anni a sostenere la possibilità (ma che dico, la necessità) che le serie tv non vadano considerate solo come strumenti per raccogliere abbonamenti o vendere spazi pubblicitari, ma come vere e proprie forme d’arte in cui l’aspetto commerciale può e deve andare di pari passo con una componente pienamente culturale ed espressiva (un ragionamento che, a ben vedere, vale anche per cinema, letteratura, musica ecc ecc).
Se vogliamo considerare le serie tv come opere d’arte o aspiranti tali, allora, dobbiamo considerare la presenza di uno o più artisti che le creano e le offrono a un pubblico. I Vince Gilligan, i Matthew Wiener, gli Aaron Sorkin, sono moderni Shakespeare che, offrendo le loro storie al pubblico, li intrattengono e li mettono in contatto con una visione del mondo, una riflessione sull’uomo e sulla società, un’interpretazione dell’universo che li circonda.

Cosa succede nel momento in cui costringiamo questi artisti a costruire universi paralleli e finali multipli, solo per venire incontro alle esigenze di spettatori viziati che vogliono poter decidere tutto? Succede che quella famosa componente artistica viene inevitabilmente meno, o viene per lo meno depotenziata. Se impediamo a Kurt Sutter di decidere qual è l’unico e solo finale della storia di Jax Teller, consentendo allo spettatore di scegliere fra tre o quattro finali alternativi, la serie guadagnerà punti in termini di sfruttamento commerciale e soddisfazione “qui ed ora” del pubblico, ma perderà la forza di un racconto universale che, proprio perché mette tutti gli spettatori a qualcosa di immutabile con cui devono fare i conti, li constringe a riflettere nel profondo non solo sulla qualità della serie, ma anche sul loro rapporto intimo e personale con quanto si vede sullo schermo.

the oa

Tralasciando gli inghippi social che potrebbero sorgere (l’idea di passare da “cosa ne pensi del finale di” a “che finale hai scelto per” mi fa venire i  brividi), e tralasciando anche gli inevitabili ostacoli produttivi (quanto potranno essere decisive le scelte lasciate allo spettatore? Non credo si possa far decidere sulla morte di un personaggio importante, vista la vastità delle ripercussioni a breve e lungo termine…), la questione principale sta proprio qui, nel concetto stesso di racconto come visione del mondo che viene offerta da un artista a un pubblico, che con quella visione deve poter fare i conti, anche per rifiutarla se necessario, ma con cui crescere e riflettere.

In attesa di vedere cosa succederà, e ribadendo che l’esperimento ha comunque senso proprio in quanto esperimento (che spero però rimanga tale), alla mia obiezione si può opporre una importante contro-obiezione.
Si può cioè far notare come esistano già ora, e anzi esistano da anni, forme di intrattenimento che lasciano ampia libertà di scelta al fruitore, e non per questo ne risentono in termini di forza espressiva o perfino artisticità. Il riferimento ovviamente è ai videogiochi, che da molti anni offrono sviluppi e finali multipli anche molto diversi fra loro, che garantiscono al giocatore non solo la possibilità di sviluppare la storia come meglio crede, ma anche, eventualmente, di rigiocarla puntando a un altro finale.
E lo stesso si potrebbe dire dei libri game, o anche delle vecchie storie a bivi di Topolino.

jax teller

Ci vedo però una sostanziale differenza (a parte forse proprio con Topolino). Il videogioco – il cui valore artistico, peraltro, si giudica soprattutto in base ad altri parametri – opera una sostanziale trasformazione del giocatore da spettatore ad attore della storia. Nel videogioco il giocatore sente di vivere l’avventura in prima persona, è l’effettivo protagonista dell’azione, e quindi l’idea che le sue scelte possano portare a risultati differenti è non solo accettabile, ma in certi casi addirittura obbligata, o per lo meno fortemente suggerita dalle stesse caratteristiche del mezzo espressivo. Che è un po’ la stessa cosa che si potrebbe dire di un gioco di ruolo anche non “video” come Dungeons & Dragons.

La serie tv non funziona così. Nella serie tv siamo spettatori e, per quanto la storia raccontata possa suscitarci forti emozioni, è per l’appunto una storia raccontata, che “riceviamo” più che “costruire” con le nostre mani. È per questo che, nel caso specifico, la visione dell’autore diventa più importante, e qualunque deviazione o moltiplicazione dalla sua specifica visione si tramuta nel contentino verso un pubblico che, tipicamente, sceglierebbe sempre la stessa cosa.
Avremmo così persone che scelgono sempre il finale romantico, senza mai contemplare l’arricchimento che una deviazione tragica potrebbe fornire al loro bagaglio culturale. Idem per chi vuole sempre il lieto fine, o per chi al contrario non lo vuole mai.
Il concetto, dunque, non è la potenziale efficacia commerciale di un progetto del genere (per cui servirebbero altre riflessioni in un altro articolo), né la possibilità che prodotti simili possano esistere e darci un certo ammontare di soddisfazione.
Il concetto riguarda la nostra considerazione delle serie tv in quanto oggetti culturali, e in quanto prodotti che, sfruttando anche la loro capacità di spiazzarci, possano offrirci i vantaggi dell’uscita dalla nostra comfort zone, senza nemmeno la necessità di staccarci dal divano.

Perché l’alternativa, in un futuro (improbabile) in cui tutte le serie tv siano concepite in questo modo, è avere prodotti così adeguatamente calibrati sulle nostre personali esigenze, da eliminare la principale valenza dell’esperienza artistica, che più che una carezza è uno schiaffo, un pugno, una sveglia piantata in un orecchio addormentato.



CORRELATI