25 Aprile 2018 5 commenti

Tre pilot in 42 secondi: The Crossing, Splitting Up Together e Champions di Diego Castelli

Sfoltire sfoltire, tagliare tagliare

Copertina, Pilot, Tripilot

The Crossing
The-Crossing

La bella stagione è appena iniziata, ma già cominciano ad arrivare i primi cagatoni estivi, tipo rondini al ritorno dai paesi caldi. The Crossing, nuovo mystery di ABC, è scritta con in mano il manualetto del mystery facilotto da generalista: un concept ardito che in realtà è la solita variazione sul tema “mucchio di persone a cui succedono cose strane” (in questo caso alcune decine di poveri cristi comparsi dal nulla su una spiaggia e asserenti di provenire dal futuro); un’alternanza di dinamiche governativo-militari e romantico-familiari; un cast corale in cui piazzare un po’ di tipi umani diversi, comprensivi naturalmente di scettici, credenti, mamme, figli, mariti, amanti , viscidoni e quant’altro; una regia sobria-tendente-allo-scialbo che si limita a raccontare quello che succede, schivando con grande cura qualunque tipo di reale sperimentazione o azzardo. Il risultato è una serie che non è “brutta”, e che vent’anni fa magari mi sarei pure guardato con piacere. Ma nel caos seriale di oggi c’è davvero poco che possa spingere a seguire The Crossing settimana dopo settimana, e alla domanda “cosa sarai mai accaduto a questi misteriosi viaggiatori del tempo?”, la risposta rischia di essere “guarda non dirmelo che tanto non mi interessa”.

 

Splitting Up Together
Splitting Up Together

Il paradosso del titolo (“separarsi insieme”) racchiude con una certa efficacia il concept della nuova comedy di (nuovo) ABC, che racconta di marito e moglie che divorziano, ma che restano vicini ai tre figli vivendo alternativamente nella casa coi ragazzi o nel garage lì accanto, dove poter fare i single impenitenti. Uno strano accrocchio che consente a entrambi, a settimane alterne, di imparare qualcosa di più sulla propria vita, sul proprio essere genitore e partner, sulle proprie manchevolezze e i propri punti di forza. Il tutto, quasi scontato dirlo, con l’idea che, restando separati, i due possano ben presto scoprire di mancarsi e di voler tornare insieme. Non è una brutta idea, anche se un tantino arzigogolata, e i protagonisti Jenna Fischer e Oliver Hudson funzionano: hanno carisma a sufficienza per essere credibili, ma non sono tanto belli da essere irrealistici. Il problema è che è più o meno tutto qui. Il riassunto dice già tutto, non spazio per vero stupore, e a farci rimanere incollati allo schermo dovrebbe essere la forza delle gag e la stranezza delle situazioni in cui i due vengono a trovarsi. Purtroppo però è tutto abbastanza ordinario, e la voglia di passare ad altro arriva abbastanza in fretta.

Champions
Champions

Qui siamo un gradino sopra. Magari non abbastanza, ma un gradino sopra. Non solo perché la serie è creata da Mindy Kaling che adoro, ma perché qui c’è un tipo di comicità che apprezzo maggiormente: più rapida, più idiota, più surreale. La storia è quella di due fratelli che gestiscono una palestra sull’orlo del fallimento, e uno dei due (quello meno imbecille) scopre di avere un figlio di cui non sapeva nulla (e la madre è proprio Mindy Kaling). Il figlio – un ragazzino gay e super cool – va a vivere col padre e crea naturalmente un sacco di scompiglio, rovinando la sua perfetta vita da single. Si notano le somiglianze con The Mindy Project, per il cast più corale, per la voglia di disegnare personaggi molto netti e subito riconoscibili, per la capacità di creare situazioni al limite dell’assurdo. A frenare il tutto è l’antipatia del ragazzino (che è scritto apposta per essere fastidioso, ma alla fine lo è troppo), e la sensazione che manchi comunque qualcosa, un guizzo vero che renda la serie imprescindibile. Se mi trovassi sul divano con niente da fare al sabato pomeriggio e mi imbattessi in Champions, potrei guardarla con un certo gusto. Se invece devo proprio cercarla, nel marasma di altre serie con cui ci bombardano il cervello, allora forse no.



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