20 Luglio 2018 2 commenti

Succession: a oggi la mia serie preferita dell’estate di Diego Castelli

Succession è una serie meno glamour di altre, ma che di settimana in settimana ci sta piacendo sempre di più

Copertina, On Air

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In un periodo estivo come sempre scarico di serie tv, non stanno però mancando titoli di una certa rilevanza, come dire “pochi ma buoni”: si può citare l’eleganza di Sharp Objects, la rilevanza politica e culturale di Pose, i ritorni solidi di The Affair e Preacher, senza contare ciò che arriverà nelle prossime settimane, dall’attetissimo Castle Rock al ritorno di Orange is The New Black.

Eppure, se oggi 20 luglio dovessi scegliere la mia serie preferita dell’estate, direi Succession. Ed è vero che non sono andato a prendere l’ultimo prodotto svedese mai visto da nessuno, stiamo comunque parlando di HBO, ma è una serie di cui alla vigilia sapevo poco, che non stavo particolarmente “aspettando”, e che ora invece mi colpisce ogni volta di più, di settimana in settimana.
Il Villa ne aveva già parlato bene in occasione del pilot, e se seguite i Serial Moments del lunedì sapete bene che da allora non l’abbiamo mai persa di vista.

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A stupire, di Succession, è la facilità con cui gli autori capitanati da Jesse Armstrong riescono a partire da un tema e un’ambientazione superclassici e pure potenzialmente noiosi (il drama familiare dei ricchi, incastrato nelle pieghe burocratiche dell’azienda di famiglia), per costruire una storia che non è solo appassionante, ma anche capace di cambiare di volta in volta registro, a seconda di quello che deve raccontare e delle emozioni che vuole scatenere.
Gli ultimi due episodi, in questo senso, sono parecchio esplicativi.

Nel sesto episodio, a tenere banco è la riunione all’interno della quale Kendall, erede designato della fortuna del padre Logan, cerca di sfiduciare il genitore ormai anzianotto e un po’ arteriosclerotico per prendere il comando dell’azienda. Come ho scritto nei Serial Moments, è forse il miglior esempio di suspense che ho visto quest’anno in una serie tv. L’avvicinamento alla riunione, a cui Kendall non riuscirà a partecipare perché bloccato da una sequela quasi surreale di ostacoli, è un crescendo di tensione pazzesca che tira al massimo gli elementi più disfunzionali della relazione fra i protagonisti. Un episodio in cui il drama diventa veicolo per una messa in scena da thriller vero, che porta a una conclusione peraltro nefasta per quello che in teoria sarebbe l’eroe della serie, costretto a tornare a casa licenziato e con le pive nel sacco. Ma un thriller che non dimentica da dove parte, e chiude la puntata con una profonda modificazione dei rapporti di forza e di affetto fra i protagonisti (come dire: suspense sì, ma con uno scopo).

Il settimo episodio, andato in onda pochi giorni fa, cambia completamente la carte in tavola. Dopo aver licenziato il figlio e aver ripreso saldamente il timone delle sue aziende, Logan si rende però conto che la superficie oggigiorno è tutto, che lui è pressato dai debiti, e che è fondamentale dare in pasto ai giornalisti un’immagine di famiglia solida e felice. Decide per questo di riunire tutti in una specie di ranch nel deserto, in cui uno psicologo li seguirà per un breve ciclo di sedute con l’obiettivo di mettere qualche cerotto sulle profonde crepe della famiglia Roy.

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Quasi superfluo dire che tutto va a ramengo, ma a interessare è il “come”: questo non è un episodio di suspense, anzi è quasi una comedy. Nel momento in cui lo psicologo, ben poco utile durante l’episodio, si tuffa di testa in una piscina più bassa del previsto fracassandosi tutti i denti davanti, ci rendiamo conto di stare guardando una specie di commedia surreale in cui ogni personaggio persegue un interesse personale (primo fra tutti Logan, che organizza la vacanzella solo a beneficio dell’opinione pubblica) facendo però finta di avere a cuore il benessere comune. Quando Kendall compare sulla scena, dopo essere ricaduto nel tunnel della droga, si apre un ulteriore squarcio di follia che rende tutto amaramente ridicolo.

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Facile immaginare che il prossimo episodio sarà ancora diverso, perché la dipendenza di Kendall, trattata a questo giro come occasione di caos e divertimento, mostrerà ben presto la sua faccia più tragica.
Qui entra in gioco anche la bravura del cast, in cui sono tutti ottimi. Ho già avuto modo di elogiare Jeremy Strong (Kendall), la cui rigida e vibrante mimica facciale restituisce costantemente l’immagine di un uomo sempre teso fino allo spasimo, pronto ad esplodere in maniera imprevedibile. Una recitazione che diventa naturalmente più rilassata e allegrotta quando Kendall si rituffa nella dipendenza, lasciando allo spettatore la scomoda sensazione che il pover’uomo sia effettivamente felice solo quando si droga.
Ma sono tutti da elogiare: il Logan di Brian Cox è il perfetto capofamiglia duro e senza sentimenti; Kieran Culkin (fratello del Macaulay di Mamma ho perso l’aereo) è preciso nei panni del figlio cazzone e apparentemente menefreghista, ma in realtà succube del padre; Sarah Snook fa la figlia teoricamente sana e razionale, ma sotto sotto preda di pulsioni professionali e personali che sfociano quasi nella passione erotica; e Matthew Macfadyen interpreta un marito così sfigato e leccaculo, che la sua sola presenza sullo schermo riesce a schifare e divertire nello stesso tempo.

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È chiaro che se vogliamo consigliare a qualcuno serie che abbiano un vero sapore di mai visto, dobbiamo andare altrove, all’ardore politico e post-apocalittico di The Handmaid’s Tale o agli esperimenti visivi di Legion. Ma spesso la vera abilità non sta nel giocare con materie prime nuove e originali, perché così è abbastanza facile. La sfida più affascinante, a volte, è prendere un genere e un tema abusatissimi, e riuscire a farli sembrare nuovi e freschi anche allo spettatore che di questa roba ha già visto mille esempi. Nell’ambito del drama light, romantico e commovente, il campione è
This Is Us, ma nel mondo cinico e sanguinoso dei ricconi e delle megacorporation, Succession è quello che fa per voi.



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