9 Novembre 2018 12 commenti

Homecoming – La serie con Julia Roberts è pettinatissima di Marco Villa

In Homecoming, Julia Roberts aiuta i veterani di guerra a reinserirsi nella società, ma il centro in cui lavora nasconde torbide macchinazioni

Copertina, Pilot

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Sono innanzitutto due i motivi per cui Homecoming merita attenzione. Il primo ovviamente è la presenza di Julia Roberts, ovvero colei che fino a pochi anni fa era la regina indiscussa della classifica delle attrici più pagate di Hollywood. La seconda è la durata, perché siamo di fronte a un drama con una durata da comedy. E non abbiamo ancora iniziato a parlare del contenuto.

Homecoming è una nuova serie prodotta e distribuita da Amazon, disponibile dal 2 novembre anche in Italia. Creata dai quasi esordienti Eli Horowitz e Micah Bloomberg, Homecoming prosegue quel percorso di posizionamento molto alto che Prime Video sta cercando di portare avanti da tempo. In questo senso, il reclutamento di Julia Roberts si spiega da solo, ma anche il fatto che la regia di tutti gli episodi sia di Sam Esmail (Mr. Robot) non è da meno.

L’Homecoming Transitional Support Center è un centro della Florida che si occupa di assistere i veterani delle guerre combattute dagli USA, nel difficile percorso di reinserimento nella società civile. Heidi Bergman (Julia Roberts) lavora qui come counselor e ogni giorno incontra una serie di ex soldati che hanno accettato di farsi ricoverare nella struttura, nella speranza di subire un ritorno alla normalità meno traumatico. O almeno questo è ciò che sembra, perché in un secondo filone temporale, ambientato a circa 4 anni di distanza, troviamo Heidi trasformata in cameriera in un ristorantino di provincia, rintracciata da un dipendente del Ministero della Difesa (Shea Whigham) che sta compiendo un’indagine interna proprio sulla struttura dove Heidi lavorava. Il motivo? A quanto pare la permanenza dei degenti non era così volontaria e dietro il paravento del sostegno ai veterani si nascondeva ben altro.

Questo è quanto emerge dai primi due episodi di Homecoming, che giocano per sottrazione sia per scrittura, sia per regia. La scrittura lascia solo intuire il macrotema della serie, quello che le dà senso di esistere, ovvero la trama orizzontale di mistero, in cui è coinvolto uno sfuggente Bobby Cannavale. Non solo viene mostrata in modo quasi incidentale, come informazione di contorno, ma le scene legate all’indagine vengono anche inscatolate in un formato visivo differente, che ricorda quasi un vecchio Super 8. Scelta straniante, visto che si tratta di un flashforward rispetto a quanto raccontato in gran parte dell’episodio. Non è l’unica scelta estetica forte: basti pensare al pellicano protagonista di una delle prime sequenze, che farebbe la felicità di Paolo Sorrentino; oppure il lungo pianosequenza che racconta l’uscita dall’ufficio di Heidi, seguita con un movimento di macchina hitchcockiano dall’alto che va a scavalcare le scenografie, mostrando il non-realismo degli ambienti.

A livello stilistico, Homecoming è quindi una serie molto raffinata, in cui una regia ai limiti del virtuosismo dà dinamismo e movimento anche a scene ambientate in interni che altrimenti sarebbero statiche. A livello di scrittura, invece, la serie sembra giocare a nascondino, provando a coprire le proprie carte in maniera quasi ossessiva, per mostrarle di millimetro in millimetro con grande accortezza.

Il risultato è una serie affascinante, che incuriosisce e cattura. Parte del merito, va detto, è anche da riconoscere alla pezzatura degli episodi: di fatto, stiamo parlando di puntate lunghe metà dello standard dei drama e questa scelta si sente, perché non è solo questione di durata, ma anche di diversa scansione degli eventi e delle informazioni. Dai primi episodi, insomma, Homecoming sembra unire i pregi della televisione di qualità e un formato in grado di ribaltare la consueta percezione dei drama.

Non è detto che questo si traduca in una serie capolavoro, ma di sicuro qualcosa di interessante può arrivare.

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