22 Maggio 2019 5 commenti

The Society: gli adolescenti sperduti di Netflix lottano per sopravvivere di Roberta Jerace

Una specie di versione liceale di Lost, da mettere in lista senza priorità

Copertina, Pilot

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Nel 1954 usciva Il Signore delle mosche (W. Golding), un romanzo allegorico su un gruppo di ragazzi che si ritrova sperduto su un’isola deserta e deve tentare di autogovernarsi per sopravvivere e trovare la via di casa. Il topos letterario funziona anche sul piccolo schermo, così bene che è stato più volte tradotto in serialità televisiva. Il capostipite del millennio è certamente Lost, ma non sbagliate se la trama di base vi riporta ad altre esperienze come Under the Dome o, forse soprattutto, The 100.
Netflix ci riprova con The society, affidando il progetto a Christopher Keyser (Tyrant; Party of five) e destinando la regia, tra gli altri, a Marc Webb (The Amazing Spiderman 1 e 2); i due mettono in piedi uno show che non eccelle ma neppure delude. È un ritornello che si ripropone spesso per le produzioni Netflix ma, come capita di sottolineare qui a Serial Minds, quello che fino a un decennio fa era degno di nota, oggi ci appare di “ordinaria distrazione”.

Il soggetto di The Society parla degli studenti liceali di una cittadina del New Hampshire, che al rientro da una gita annullata si ritrovano nella versione fantasma o, per meglio dire, nella copia disabitata della loro stessa città. Si accorgeranno subito che il mondo al di fuori delle mura urbane è un’immensa foresta nella quale è meglio non addentrarsi con leggerezza, ma soprattutto prenderanno presto coscienza di essere l’ultimo baluardo di un’umanità apparentemente estinta.
Una prigione a cielo aperto, insomma. Tale sia per l’improbabilità di abbandonare fisicamente il luogo, sia perché è impossibile per i ragazzi divincolarsi dai limiti imposti dall’età. La precarietà di questa situazione è resa perfettamente dall’incapacità di affrontare emergenze mediche, dal non poter fare affidamento sull’esperienza che è appannaggio dell’età adulta e dal costante desiderio di riavere accanto i propri genitori.

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La serie ha il merito di non concentrarsi esclusivamente su un genere: c’è il mistero da risolvere, il dramma delle lotte intestine e la cooperazione per la sopravvivenza, ma è anche densa di momenti di dolcezza, di quotidianità, di dinamiche amorose e di storyline secondarie, che mettono in scena un numero insolitamente alto di personaggi.
I ragazzi sono interpretati da giovani attori non privi di esperienza, che però purtroppo non offrono prove recitative di livello. La loro incapacità di essere incisivi fino in fondo è probabilmente legata a una sceneggiatura e una regia che non esplorano l’interiorità dei personaggi ma prediligono l’attenzione alle dinamiche sociali e di potere. I visi non sono proprio adolescenziali, ma questa è tradizione in tv. Da Dylan e Brenda a Stefan Salvatore se non hai trent’anni o giù di lì, il sedicenne non lo puoi fare; se questa cosa vi infastidisce strizzate gli occhi e magicamente le rughe spariranno dallo schermo!

Un pregio, invece, è rappresentato dal fatto che i volti e i ruoli dei vari protagonisti siano immediatamente riconoscibili: c’è lo psicopatico, l’amico servile e intelligente, la vittima, il disabile, la religiosa, i bulli senza cervello e così via. Tra di essi emerge la leader del gruppo: Cassandra, interpretata da Rachel Keller (Legion; Fargo), che si fa carico di un compito scomodo ma necessario, quello di mettere ordine e dare regole atte a garantire la sopravvivenza.

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Da qui spoiler vari sulla prima stagione.

L’antagonista principale, Harry (Alex Fitzalan), è uno stereotipato figlio di una ricca famiglia, incapace di rinunciare al proprio posto privilegiato nella società. Sarà lui, seppure indirettamente e involontariamente, a dare il via al primo reale atto di violenza, cioè l’omicidio di Cassandra.
Questa è una delle più grandi ingenuità della serie. Ancora una volta Game of Thrones ha fatto lezione e abbiamo visto riproporsi più volte negli ultimi anni la costruzione e l’annientamento di un personaggio principale. Se i creatori immaginavano con questa scelta di far saltare gli spettatori sulle sedie, non hanno centrato il punto come speravano. Tanto più che l’avvicendamento al ruolo di leader da parte di Allie, la sorella di Cassandra, appare forzoso e con qualcosa che non funziona fino in fondo.

Ad Allie presta il volto Kathryn Newton (Supernatural; Big Little Lies), che raggiunge in alcuni momenti punte di antipatia e di piattezza che possono far dubitare della comprovata bravura dell’attrice, più abile evidentemente in altri ruoli. Allie, inoltre, si riprende troppo velocemente dalla morte della sorella e altrettanto rapidamente accetta di sostituirla nella sua leadership. Ci aspettiamo da lei che, messa così duramente alla prova, faccia un salto di qualità diventando il metro morale della comunità o che precipiti in un baratro di dolore cieco. Questo non accade, e al contrario permane in uno stallo emotivo, anche quando è costretta a giustiziare l’assassino.

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Non è però l’omicidio a sangue freddo a determinare il “crollo della civiltà”, ma è un episodio apparentemente meno significativo a valicare il confine etico tra giusto e moralmente riprovevole. Una rivale di Allie viene accusata ingiustamente di un crimine e, mentre è detenuta da due atleti che rappresentano le forze di polizia, è costretta a spogliarsi e far fronte a un’esigenza intima davanti ai due, che rifiutano persino di voltarsi.
Una scena forte e disturbante di un sopruso vero che si consuma lontano dallo sguardo dei più. È una scelta magistrale, da parte degli autori, quella di scatenare a partire da questo evento la ribellione verso Allie, colpevole di essere rimasta sorda alla vittima che denunciava la lesione della propria dignità.

Il ribaltamento delle posizioni di potere, la minaccia della forza bruta che insidia l’umanità superstite rischiando di indurla in un nuovo Medioevo, la lotta alle risorse che si esauriscono e il mistero da sciogliere, sono solo alcune delle situazioni lasciate aperte per la prossima stagione (già confermata). Non è lo scontatissimo cliffhanger finale a destare interesse, ma piuttosto scoprire se è vero quello che sosteneva Golding e cioè che “l’uomo produce il male come le api producono il miele” o se c’è speranza di redenzione e armonia oltre il conflitto e la scelleratezza.

 

Perché seguire The society: Perché come dicevano i professori a scuola, ha potenzialità ma non si impegna. Rimandata in diverse materie ma non ancora bocciata.
Perché mollare The society: Perché corre il rischio di diventare una Lost 2.0 fatta di dinamiche adolescenziali già viste.

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