17 Settembre 2019 4 commenti

BH90210 prima stagione: solo amore incondizionato di Diego Castelli

Il ritorno della cumpa di Beverly Hills ha certamente i suoi difetti, ma a questa gente possiamo volere solo bene

Copertina, On Air

OCCHIO, SPOILER SU TUTTA LA STAGIONE

Da un certo punto di vista, quello che vi dovevo scrivere su BH90210 ve l’ho già scritto nella prima recensione, senza contare le varie puntate successive dei Serial Moments. Cioè, non è che io abbia poi tantissimo da aggiungere in termini di analisi nuda e cruda.
Eppure sento forte il bisogno di una conferma: maremma maiala quanto m’è piaciuta sta serie. E sapete quand’è che ti accorgi che uno show ti è piaciuto tanto, nel modo “giusto”? Quando hai visto benissimo le sue magagne, e sai perfettamente che qualcuno potrebbe fartele notare, ma allo stesso tempo non te ne fregherà niente, perché il tuo affetto è abbastanza robusto da non creparsi semplicemente di fronte a gente che non caspisce un… che non la pensa come te. Con BH90210 si esce dalla critica e si entra nell’infanzia, e quando si entra nell’infanzia non mi dovete scassare.

Un altro segnale del tipo di effetto che BH90210 ha avuto su di me si vede dall’approccio alla sigla. Io ormai salto il 99% delle sigle, e il pulsante “salta intro” di Netflix è il mio migliore amico. Ma con la sigla di Beverly Hills non si scherza. Sei episodi ci sono stati, e sei sigle mi sono viste, ogni volta sentendo gli echi della gioventù che mi pulsavano nella scatola cranica.
Nella prima recensione l’avevamo detto che gli autori erano stati furbi, perché avevano deciso di evitare le classiche trappole del sequel fuori tempo massimo (“oddio, che roba patetica”), imbastendo una storia meta-linguistica che puntasse tanto sull’autoironia, e sulla messa in scena di attori, più che di personaggi, per i quali il tempo è passato come per noi, con gli stessi problemi ma anche la stessa voglia, se possibile, di buttare uno sguardo alle spalle e allargare un sorriso languido.

Certo, è anche possibile che questa scelta, così nobile dal punto di vista artistico, non sia stata quella giusta nella fredda giungla degli ascolti. Il pilot di BH90210 è stato seguitissimo, per gli standard di FOX, segno che la curiosità per vedere nuovamente insieme il vecchio cast era tanta. Nelle puntate successive, però, i dati sono calati vistosamente, tanto che ora il rinnovo non è più così scontato, anzi. Le cose sono due: o agli spettatori non interessava vedere un’intera nuova serie, e quindi hanno solo voluto sbirciare il pilot, oppure a non piacere è stata proprio l’impostazione meta, che non raccontava di Brandon e Kelly, ma di Jason e Jennie.

La verità forse non la sapremo mai (anche se io propendo più per la seconda ipotesi), ma io ho già detto, e ribadisco, che se l’idea di un reboot così autoconsapevole all’inizio mi preoccupava, poi ci sono entrato con tutte le scarpe. Il senso di nostalgia che speravo di provare è stato pienamente soddisfatto, forse più di quanto pensassi. E questo perché quella nostalgia non è stata alimentata semplicemente con l’uso di personaggi vecchi di trent’anni, ma è stata fisicamente messa sullo schermo raccontando di una manciata di attori e attrici invecchiati e un po’ dimessi (come siamo invecchiati noi); mettendo in scena le effettive dinamiche di una reunion; citando questo o quel nome (tipo il padre di Tori, il mitico produttore Aaron Spelling) come simboli concreti di un tempo mitico che, nell’era delle migliaia di serie all’anno, tutte bingewatchate, tutte cotte e mangiate, non tornerà più.

Per questo dico che si passa facilmente sopra ai difetti. Che ci sono, perché parlare per cinque episodi di uno stalker potenzialmente violento, e poi risolvere la cosa scoprendo il colpevole praticamente fuori campo, senza manco farlo rivedere se non è in foto, è un po’ una poracciata.
Idem per il trattamento di Zach, la cui attenzione morbosa per la vita di Brian è sì giustificata dall’idea di farlo passare per pericoloso, ma che poi viene abbandonata troppo in fretta, passando subito al tema della sua vera identità, e finendo poi in uno dei molti cliffhanger del finale, dove il ragazzo pare essere figlio di Jason.
Alcuni personaggi/attori sono sembrati più approfonditi di altri, con la povera Shannen Doherty ridotta quasi sempre a una macchietta. Divertente, ma pur sempre una macchietta.
E volendo, paradossalmente, si potrebbe anche contestare al finale di essere un po’ troppo pieno di sorprese, per una serie che non aveva alcuna certezza di essere rinnovata: la paternità di Zach; gli sguardi romantici fra Jennie e Jason; Ian che si tromba Denise Richards per poi scoprire che è la madre di Anna; la notizia che il reboot di Beverly Hills è stato effettivamente ordinato (con buona pace del reboot di The OC, geniale “nemico” del finale di stagione), ma che forse dovrà fare a meno di uno dei protagonisti.
Sono tutti rilanci in vista di una seconda stagione per nulla scontata, e che quindi potrebbero lasciare un po’ l’amaro in bocca in caso di cancellazione.

Come detto, però, si passa sopra a tutto, perché BH90210 si porta dietro una specie di magia che finisce con l’essere l’unica cosa che conta. Sarà dovuto alla semplice presenza di tutti i protagonisti e di un numero congruo di guest star d’annata. Saranno certe scenette messe lì quasi per caso, ma che scaldano il cuore, come quando Jennie e Tori guardano insieme il pilot di Beverly Hills sedute sul divano. Saranno i pochi, centellinati e calibrati momenti onirici, in cui i nostri riprendono effettivamente in mano i vecchi personaggi, ma in una qualche versione matta e straniante (come il sogno di Shannen in cui Brenda e Brandon finiscono a limonare incestuosamente, o quello di Ian in cui uno Steve ormai adulto torna indietro nel tempo per incontrare il se stesso più giovane, ancora funestato da quei ricci di merda).

Non lo so. Mi arrendo. Non so spiegare in modo preciso e circostanziato perché questo reboot mi abbia colpito più di altri. Probabilmente, in contrasto con chi (del tutto legittimamente) voleva un vero e proprio sequel, ho apprezzato l’onestà. Niente forzature, niente tentativi di ricreare in laboratorio una magia che non c’è più. Piuttosto, la voglia di celebrare e ricordare quella magia da un altro punto di vista, mettendo gli attori nello stesso posto degli spettatori, annullando le barriere e promuovendo un’amicizia trasversale, dentro e fuori lo schermo. Scoprendo così, dolce paradosso, che era proprio quella la magia di cui avevamo bisogno.
Spero nella seconda stagione. Se non ci sarà, però, è stato bello comunque.

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