16 Luglio 2020

I May Destroy You – Una serie improvvisamente fondamentale di Diego Castelli

In 12 episodi, Michaela Coel confeziona un prodotto che affronta con precisione, originalità e sorprendente leggerezza tutti i temi più caldi di questi anni

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SPOILER SU TUTTA LA STAGIONE

È assolutamente necessario fare un punto conclusivo su I May Destroy You, la serie scritta, interpretata, prodotta e co-diretta da Michaela Coel per BBC One e HBO, che nel corso di sei settimane, per un totale di 12 episodi, è riuscita a imporsi come una perla seriale fra le più fulgide, aspre, intelligenti, e politicamente rilevanti di questi anni.
Chi segue i serial moments settimana dopo settimana (care persone…) troverà in questo articolo anche cose già dette, ma che vale la pena ripetere. Ma ci sono anche altre cose da aggiungere, specie in relazione a un finale ancora una volta sorprendente.
I May Destroy You aveva stupito fin dall’esordio, quando quella che sembrava la classica storia autobiografica di un’autrice in vena di amarcord sulla propria giovinezza e sul proprio presente, si trasformava nel racconto inaspettato di uno stupro e della sopravvivenza ad esso (inaspettato per chi non aveva ancora letto nulla prima di vedere il pilot, anche perché Michaela Coel, nel 2018, rivelò pubblicamente di essere stata aggredita sessualmente durante le riprese della sua serie precedente, Chewing Gum).
In breve tempo, la serie ha iniziato un percorso estremamente originale ed rilevante dal punto di vista culturale e politico, che si è sviluppato sostanzialmente in tre fasi.

Nella prima fase, I May Destroy You prova a raccontare tutto ciò che normalmente non si racconta a proposito delle molestie sessuali, perché poco “spettacolare”. Michaela Coel, cioè, non mette in scena un classico stupro “da film”, con una violenza smaccata e volgare, e una vittima perfettamente cosciente di stare subendo una violenza, che poi andrà indagata o vendicata. Al contrario, la sua Arabella è una donna che per un po’ non sa nemmeno di essere stata stuprata, perché la droga che le era stata somministrata in un bar le impedisce di ricordare cosa è realmente accaduto. Allo stesso tempo, però, la violenza ha lasciato un trauma ben poco ignorabile, che Arabella scopre pian piano.
Durante buona parte della stagione, l’autrice prova a scavare in una materia effimera, quella composta da traumi sotterranei, poco definiti, ma non per questo meno invalidanti, che molte donne subiscono all’interno di una cultura nella quale, se una violenza non è “palesemente tale”, è automaticamente ignorabile. Arabella finisce col rientrare nella casistica delle ragazze “talmente ubriache che un po’ se la sono cercata”, argomento attualissimo anche nella nostra cronaca italiana (con titoli di giornale da fare ribrezzo), e diventa protagonista di un’odissea in cui ci sono pochi punti di appoggio, in cui le istituzioni si mostrano amiche ma alla fine insufficienti, e in cui anche gli amici più cari, pur mossi dalle migliori intenzioni, non riescono sempre a dire o fare la cosa giusta.
Associando alla vicenda di Arabella anche quella di Kwame, l’amico gay che subisce una violenza ancora più difficile da far accettare alla società (robe del tipo “è gay, figurati se possono violentarlo, sicuramente gli sarà piaciuto”), Michaela Coel sonda le sfumature, illumina un sottobosco di pratiche criminali e dinamiche psicologiche di cui si conosce poco, e di cui a volte perfino le vittime sono inconsapevoli, come nel caso dell’episodio di stealthing, quando Zain, facendo sesso con Arabella, si toglie il preservativo senza avvertirla. Una pratica illegale che la protagonista nemmeno conosce, e a cui lì per lì da poco peso, scoprendone solo successivamente le implicazioni.

In questa fase, in cui la serie punta un occhio fisso e impietoso sui traumi di Arabella e sui piccoli e grandi segnali che ne rappresentano il sintomo (la difficoltà a portare avanti il suo lavoro di scrittrice, l’impossibilità a concentrarsi, gli incubi, i flash, gli attacchi di panico), quello a cui assistiamo è una sorta di trattato su tutto il male a cui normalmente non diamo peso, abituati come siamo a concentrarci sui delitti più efferati e sanguinosi, tralasciando per questo quelli meno vistosi ma anche più comuni.
Un percorso che, in parte, avevamo già visto con le molestie sul lavoro raccontate da The Morning Show, che qui però acquistano una dimensione più personale, meno “spettacolare”, e per questo ancora più importante nella comprensione del quotidiano.

Il confine fra la prima e la seconda fase di I May Destroy You coincide con la denuncia, da parte di Arabella, dell’abuso subito da Zain. Una denuncia che avviene in pubblico, su un palco, e che porta Zain a fuggire dalla sala, mentre Arabella diventa nel giro di poche ore una sorta di eroina social e icona del femminismo. Qui è importante capire le dinamiche psicologiche in atto. Lì per lì, abbiamo l’impressione che la denuncia sia un importante atto di guarigione e presa di coscienza, e sicuramente rappresenta un passo avanti importante nel percorso di Arabella. Allo stesso tempo, però, la protagonista non ne ricava quello che sperava, cioè serenità ed equilibrio. Al contrario, il suo nuovo status sui social diventa presto una nuova gabbia, una nuova etichetta che Arabella si vede appiccicata addosso, e che va nutrita con continui post, continue storie, e che la porta ad abbracciare cause che sembrano perfette per lei, ma che si scoprono nuovamente guidate da interessi particolari ed egoistici (come l’azienda vegana che cerca di sfruttare la sua popolarità no matter what).
Non solo. Dal suo nuovo status sui social Arabella ricava un boost di autostima che la porta a credere di essere una specie di divinità dell’attivismo, pronta a elargire Verità illuminanti, incapace di sbagliare. Non è così, visto che in breve tempo si creano attriti con Kwame, colpevole di aver mentito a una ragazza sulla sua omosessualità, e che Arabella critica con veemenza dimenticando che proprio lei, pochi giorni prima, aveva chiuso Kwame in una stanza con un altro ragazzo gay appena conosciuto, senza curarsi minimamente di quello che l’amico poteva provare di fronte a un atto del genere.

A essere intervenuto, nella seconda fase della serie, è quindi uno strato di complessità inaspettato. Michaela Coel si sarebbe presa gli applausi anche se si fosse limitata a mettere sullo schermo dinamiche di abusi poco conosciute e sotterranee, come aveva fatto nei primi episodi, ma decide di andare oltre mostrando una complessità umana che non può essere ridotta al “ora ti spiego cosa non si può fare e cosa no”. I suoi personaggi, lungi dal diventare eroi senza macchia che andavano semplicemente informati della vita, restano pienamente umani e vivono la complessità di una trasformazione culturale e psicologica di cui non pretendono di essere perfettamente consapevoli in ogni momento. Sono vittime, certo, ma restano anche persone capaci di sbagliare, perché la loro immersione in una società ricca di storture è così profonda, che quelle storture restano dentro di loro anche a fronte di traumi violenti, perché l’uscita da certi schemi di pensiero e di azione non è semplice come tirare via un cerotto. È invece un’operazione di ri-apprendimento che prevede scivoloni, confusioni e indecisioni.

Insomma, un affresco densissimo e sorprendentemente ricco, che in pochi e brevi episodi tocca con delicatezza ma anche estrema precisione moltissime delle questioni razziali, sessuali e di genere di cui si parla in questi anni, mostrando al suo pubblico una materia in continuo divenire, in cui c’è bisogno di un impegno collettivo e costante.
Ma non è ancora finita. Negli ultimi due episodi, la Coel vuole offrire una via d’uscita ad Arabella, vuole darle il suo lieto fine, che come detto non poteva essere rappresentato da una denuncia (quella di Zain) che era sembrata quasi un grido di rabbia e di aiuto, più che un’espressione di guarigione.
Ebbene, anche in questo caso l’autrice non si accontenta, e si chiede cosa può succedere, a questa donna, perché si liberi dal peso che porta dentro.

La risposta, insieme semplice e sorprendente, è “quasi niente”. La guarigione di Isabella non è legata a un singolo evento, e se proprio dovessimo sceglierne uno, sarebbe sconvolgente: la parziale riconciliazione con Zain.
Arabella è una scrittrice che non riesce a portare a termine il suo secondo libro e che per questo, nel penultimo episodio, viene licenziata. Qui reincontra Zain, che nel frattempo ha pubblicato sotto pseudonimo un libro che Arabella ha adorato, e che qualche mese prima l’aiutava come editor. Zain offre nuovamente il suo aiuto ad Arabella, e lei inaspettatamente accetta, trovando effettivamente utilissimi i consigli del ragazzo.
Detta così è banale, ma siamo di nuovo di fronte a scelte dirompenti: andando fino in fondo nella messa in scena della complessità, Michaela Coel ammette che Zain non venga liquidato come “stupratore e basta”, riconoscendogli la possibilità di essere ancora utile alla causa della protagonista, una volta ammesso il proprio errore. Il che non significa che i due tornino insieme, o anche solo amici. Significa però che Arabella sperimenta una forma di perdono che le è anche utile in termini pratici e professionali.

Si tratta dunque di un suo movimento, una sua scelta personale, che segna la terza fase della serie come quella in cui Arabella agisce finalmente per sé, per il suo interesse, e non come semplice reazione a qualcosa che le accade intorno.
Arriviamo così all’episodio conclusivo, che è magistrale. In esso, Michaela Coel ci racconta di come Arabella, che ogni settimana si presentava al bar dove aveva subito lo stupro, sperando di riconoscere il suo aggressore, riesca finalmente a identificarlo. Con l’aiuto delle sue amiche, la protagonista mette in atto la sua vendetta, drogando l’uomo che l’aveva drogata, e finendo col pestarlo su un marciapiedi.
Solo che non è così. Quello che abbiamo appena visto è solo un sogno ad occhi aperti di Arabella, che sta per andare al bar, ma non si è ancora avviata. Di sogni ad occhi aperti la donna ne fa altri due, dal carattere assai meno vendicativo: nel primo, il suo stupratore si scopre essere un ex ragazzino maltrattato, i cui traumi l’hanno condotto a essere a sua volta un abusatore; nel secondo, sempre più onirico e surreale, Arabella e lo stupratore diventano amanti, e in una scena si vede la donna fare sesso con lui come se fosse lei l’uomo della coppia (quantomeno “quello dotato di pene”).

Come diventa sempre più ovvio con l’andare dei minuti, questi viaggi mentali di Arabella sono proprio parte integrante della sua guarigione. Elaborando e rielaborando quello che le è accaduto, anche nelle forme irrealistiche della fiction, Arabella riprende possesso di sé e del suo vissuto, sperimentando al proprio interno i vari scenari possibili, e accorgendosi che ognuno di essi, in ultima analisi, mette al centro non lei, ma il suo stupratore: con un salto vertiginoso per quelle che sono le normali regole della finzione televisiva e cinematografica, Michaela Coel ci dice che per la guarigione di Arabella l’unica cosa che conta è… Arabella. Dopo il fallimento delle istituzioni, incapace di rintracciare il criminale, la protagonista non può aspettare che si compia la classica giustizia da poliziesco, in cui il colpevole viene messo in galera o ucciso. No, Arabella ha solo se stessa e le decisioni che può prendere per sé, ed è per questo che alla fine decide di non andare al bar a fare la posta al suo aggressore.
L’ultimo atto di coraggio di Arabella è dunque quello di liberarsi da ogni senso di colpa ma anche da ogni desiderio di vendetta, accettando che la sua vita non possa essere definita da un evento su cui non aveva e non avrà mai alcun controllo.
Ed è qui, in questa auto-liberazione puramente personale, che Arabella trova la forza per rimettersi a scrivere, e per regalarci un’ultima inquadratura in cui, sulle spiagge di Ostia, l’Arabella “più giovane” può nuovamente tirare un sospiro di sollievo.

Quello scritto per la sua protagonista non è “il” percorso che Michaela Coel vuole suggerire per ogni vittima di abuso. Se c’è una cosa che I May Destroy You chiarisce senza ombra di dubbio, è il suo essere non-giudicante, la sua volontà di non prescrivere ricette facili per nessuno. Al contrario, l’obiettivo (centratissimo) è quello di alzare il velo su una complessità che normalmente rimane saldamente al di fuori degli schermi, e che qui invece viene sondata proprio nella convinzione che, come società, abbiamo il dovere di comprendere anche le sfumature di grigio, e non solo i bianchi e i neri della narrazione social. Perché è nelle sfumature che si annida la maggior parte dei traumi e dei dolori, ma chissà, forse anche delle soluzioni.
Il tutto in una serie che, paradossalmente, non perde mai una sua precisa leggerezza, una sua sotterranea vena comica, che impedisce ai personaggi di diventare “esempi”, e che gli permette di rimanere persone complete, esattamente come quelle che stanno guardando lo schermo, e che si spera possano trovarci dentro qualcosa su cui valga la pena riflettere.



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