13 Novembre 2020

The Haunting of Bly Manor: antologia dell’orrore (e del drama) di Andrea Palla

Dopo Hill House, il ritorno delle case infestate di Mike Flanagan

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Quando nel 2018 Netflix rese disponibile lo streaming di The Haunting of Hill House, si generò un più che caloroso entusiasmo nei confronti della serie per la capacità che ebbe di offrire, da parte dell’ottimo artigiano che è il suo creatore Mike Flanagan, la tensione e le atmosfere di un horror solido, unitamente al rinforzo di un’ottima scrittura drammatica. Alla fine di quel ciclo di episodi apparve però chiaro che la storia tragica e commovente della famiglia Crane era giunta a naturale conclusione, e che portare avanti quella trama con nuovi e improbabili espedienti avrebbe mortificato il perfetto ciclo narrativo che gli autori erano riusciti a regalare.
Eppure il successo della stagione convinse Netflix a proporre un rinnovo, con Flanagan che si dimostrò disposto a trasformare la propria creatura in una serie antologica, mantenendo “la casa” e “gli affetti” come centri dominanti attorno ai quali far ruotare, di volta in volta, nuovi racconti di orrore e sofferenza.

Da queste premesse sorge The Haunting of Bly Manor, nuovo tassello del lavoro antologico ribattezzato The Haunting, la cui fonte di ispirazione è ancora una volta un classico della letteratura orrorifica gotica, quel Il giro di vite di Henry James già più volte trasposto in versione cinematografica e soggetto alle più svariate interpretazioni di morale e significato. Ne è uscito un film proprio quest’anno (The Turning, rinviato più volte in Italia a causa della chiusura dei cinema per l’emergenza Covid), anche se il prodotto seriale di Flanagan se ne discosta sia per atmosfere che per svolgimento, pur mantenendo la medesima base di partenza che, al pari di Hill House, viene rimacinata e riconfezionata con eleganza.

La storia parte da un racconto del terrore che viene narrato durante un ricevimento nuziale, e inizia dall’arrivo della giovane istitutrice Dani (Victoria Pedretti) presso la casa di campagna del misterioso Lord Henry Wingrave (Henry Thomas), che assume la ragazza per badare ai piccoli nipoti Flora e Miles, rimasti orfani dopo un incidente occorso ai genitori. Qui Dani incontra il personale che bada alla tenuta: il cuoco Owen (Rahul Kohli), la governante Hannah Grose (T’Nia Miller) e la giardiniera Jamie (Amalia Eve). Fin da subito però Dani dovrà fare i conti con una serie di atteggiamenti ambigui da parte dei bambini, educati e dolci ma contemporaneamente crudeli, e con la reticenza degli altri residenti, il cui passato nasconde alcuni misteri. La ragazza inizia inoltre ad avvertire alcune presenze spettrali, legate a sua iniziale insaputa al passato della casa e dei suoi abitanti, e apprende la triste storia della precedente istitutrice Rebecca Jessel (Tahirah Sharif) e del suo fidanzato Peter Quint (Oliver Jackson-Cohen).

Bly Manor riprende dunque alcuni dei temi dominanti della prima stagione, a partire dalla casa che è presenza ingombrante nella vita di coloro che la abitano, dotata quasi di personalità propria, lugubre e dominante, una sorta di gabbia che imprigiona le coscienze dei malcapitati che qui fanno i conti con le proprie sofferenze. E ripropone quei legami, sia familiari che affettivi, dotati sempre di un rovescio della medaglia doloroso, a tratti inconsolabile, come inconsolabili sono le presenze spettrali che infestano quella dimora dalla quale non possono fuggire. I personaggi sono interpretati da molti protagonisti già apparsi in Hill House, calati qui in ruoli differenti, come da tradizione delle serie antologiche.

La serie non sceglie la via facile dell’orrore mostrato, non usa l’espediente del jumpscare per farci sobbalzare, piuttosto suggerisce questo orrore per richiamarne l’angoscia, sfruttando la cupezza dei luoghi, la solitudine dei personaggi, il silenzio del maniero, l’ansia degli spazi soffocanti, in altri termini inscenando una teatralità complessiva che la allontana dalle meccaniche scontate dei film horror moderni. Questo è un pregio che eleva la serie a prodotto più letterario che visivo, ma è anche il limite che una parte del pubblico ha rilevato in questa seconda stagione, colpevole di utilizzare meno elementi spaventosi, per soffermarsi piuttosto sulla parte drammatica del racconto. Ma The Haunting già con Hill House ci aveva abituato a dialoghi potenti, poetici e spiazzanti, e a episodi di grandissima fattura, e anche Bly Manor non fa eccezione, regalandoci in un paio di occasioni delle vere perle: l’episodio 2×05 che ci racconta la storia della governante Hannah Groose come il sogno di un sogno nel sogno, una spirale della mente costretta a richiudersi sempre su sé stessa; o l’episodio 2×08, che attraverso un lungo flashback in bianco e nero ci racconta la storia della casa e della sua maledizione, una storia d’amore, vendetta e rimpianto che non può conoscere redenzione.

The Haunting dimostra nuovamente di non essere una semplice serie tv d’orrore, ma di essere piuttosto una riflessione sull’orrore stesso, su quanto quell’opprimente senso di paura abiti la storia di ognuno di noi, non dia tregua alla felicità, e si intrecci con essa in una passeggiata macabra che conduce spesso a un finale amaro che può essere tanto salvezza quanto condanna. Una serie tragica, nel senso più romantico del termine, che è innanzitutto una parabola d’amore e morte.

Qualunque sarà la trama scelta per la prossima stagione, questi capisaldi ne faranno comunque un prodotto di alta qualità. Ne gioverà (ne gioverebbe) senz’altro una spinta su una tensione più accentuata, con gli autori che dovranno però far attenzione a mantenere sempre alto il livello della scrittura e delle dinamiche emotive dei protagonisti.



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