5 Maggio 2021

Mythic Quest seconda stagione: recensione in anteprima (senza spoiler) di Diego Castelli

Mythic Quest torna su Apple TV+ il 7 maggio, e vi possiamo raccontare in anteprima le nostre impressioni sulla seconda stagione

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Qualche tempo fa Apple TV+ ci ha scritto e ci ha detto “se volete vi facciamo guardare in anteprima tutta la seconda stagione di Mythic Quest, e vi facciamo anche intervistare i protagonisti”.
Quello che hanno detto subito dopo non l’ho sentito, perché nella mia testa vedevo già il momento in cui parlavo con Danny Pudi (ex Abed di Community e attualmente Brad in Mythic Quest) come il traguardo più alto non solo della mia esperienza di Serial Minds, ma in generale della mia vita passata e futura.
Alla fine con Danny Pudi ci ho parlato effettivamente, ma di questo parliamo in un articolo espressamente dedicato a questa sessione di interviste, che arriverà a stretto giro.

Intanto, però, possiamo affrontare la seconda stagione, cercando di non fare alcuno spoiler rilevante (sennò col piffero che mi fanno fare altre interviste del genere), e allo stesso tempo di non dire le stesse cose che avevo già detto ai tempi della prima. Non so se riesco, ma provo.
Cosa sia Mythic Quest non credo abbia senso ridirlo, anche perché, per l’appunto, c’è già un articolo di poco più di un anno fa che svolge esattamente quel compito.
Se vogliamo fare una premessa, invece, possiamo accennare al secondo dei due speciali che Mythic Quest ha prodotto in attesa della seconda stagione.
Il primo, “Quarantine”, era uscito a maggio 2020, ed era il classico episodio-da-Covid tutto girato in remoto. Il secondo, “Everlight”, è invece uscito lo scorso 16 aprile, e ha rappresentato sia l’antipasto in attesa della seconda stagione, in uscita il 7 maggio, sia un metaforico ritorno alla normalità dopo le ristrettezze della pandemia.

“Everlight”, che doveva essere effettivamente compreso nella seconda stagione e che invece ne è diventato un antefatto, è un episodio brioso e creativo, in cui Ian rinnova la tradizione di un party a tema che serve ai suoi dipendenti per fare team building, particolarmente necessario al ritorno in ufficio dopo la quarantena.
È un episodio abbastanza autoconclusivo, ma che nel raccontare la storia di questa festa dal sapore fantasy-medievale – in cui c’è stato spazio anche per combattimenti all’arma bianca, arditi effetti speciali e un Danny Pudi in versione “il villain che ha sempre meritato di essere” – è stato anche in grado di anticipare alcuni dei temi e delle situazioni più importanti per il nuovo ciclo di episodi.

L’anno scorso il gran finale corrispondeva con la decisione, da parte di Ian, di promuovere Poppy a vera co-direttrice creativo di Mythic Quest: dopo una stagione in cui Poppy, pur essendo la vera anima del gioco, veniva bullizzata da Ian in quando maschio-alfa-egomaniaco che la trattava a pesci in faccia, il riconoscimento del suo lavoro e del suo talento rappresentava la chiusura di un cerchio e il sigillo su una crescita non solo professionale ma anche etica e morale dell’intero studio.
Ora però, con una nuova espansione all’orizzonte dopo il successo di Raven’s Banquet, al centro della seconda stagione di Mythic Quest ci sono proprio le difficoltà della neonata coppia creativa, formatasi su un lodevole slancio di ammirazione e collaborazione, ma ovviamente destinata a incontrare gli ostacoli che non possono non crearsi quando due menti molto diverse ma ugualmente brillanti provano a far valere la loro visione.

Da questo nucleo narrativo si sviluppa una riflessione interessante che ruota intorno a temi già affrontati (i rapporti di forza e di genere sul lavoro, l’ambizione, la paura di sbagliare), montati però su una struttura differente, dove in teoria i due protagonisti sono ora allo stesso livello. Dico “in teoria” perché l’equilibrio non può essere raggiunto con una firma su un pezzo di carta, e va invece trovato giorno per giorno, in un processo pieno di incontro e scontri, avvicinamenti e allontanamenti, che permettono di scoprire sempre nuovi lati dei personaggi (soprattutto Poppy, a cui il nuovo potere riesce facilmente a dare alla testa).
Il finale naturalmente non lo sveliamo, ma di nuovo riesce a essere la conseguenza organica di tutto quello che vediamo durante la stagione, a riprova che Mythic Quest è sì una comedy che fa ridere (e non smette mai di farlo), ma anche un racconto che ha un pensiero e una direzione precisi che guidano la sua scrittura.

Quello composto da Poppy e Ian non è l’unico duo importante della seconda stagione, che anzi trova proprio nella coppia, o al massimo nel triangolo, la forma principale della sua esplorazione.
Per esempio ci sono Rachel e Dana che finalmente riescono a quagliare, ma la cui neonata relazione è ben presto minacciata da fattori esterni che le due tester, finora impegnate solo a giocare sul divano, devono affrontare come vere persone adulte. Ma rivediamo anche la relazione buffissima fra l’eterno ingenuo David e il cinico Brad, da cui emerge un altro sodalizio potente e comicamente fecondo: quello fra lo stesso Brad e Jo, la stagista che in lui vede sia un mentore di stronzaggine, sia un avversario da battere per mostrare il suo carattere dominante. E invece CW Longbottom, lo scrittore anziano e un po’ andato che però si porta dietro una vicenda importante da affrontare, che emerge dal suo passato e di nuovo si sostanzia in un incontro-scontro con una figura con cui deve fare i conti per trovare la chiusura di una questione a lungo lasciata in sospeso.

Come già nella prima stagione, insomma, Mythic Quest mette in scena personaggi con caratteristiche molto forti e riconoscibili, che però lasciano lo spazio per una crescita e uno sviluppo non solo teorici, ma veri e concreti all’interno di un numero non infinito di episodi.
Tutto questo, naturalmente, senza rinunciare al divertimento: parliamo sempre e comunque di una comedy, in cui la follia e le trovate sono sempre dietro l’angolo, dove può arrivare Snoop Dog per diventare un personaggio virtuale, o dove una sessione di valutazione del personale si trasforma in una specie di spettacolo teatrale di rara (e gustosissima) imbecillità.
Da una parte ho avuto l’impressione che si parlasse un po’ meno di videogiochi: il racconto, sia nelle sue componenti più serie e filosofiche, sia in quelle prettamente comiche, verte un po’ di più sulle dinamiche fra persone e fra colleghi, ma con meno riferimenti precisi al mondo dei computer e delle console, che invece abbondavano nella prima stagione.
A onor del vero però, la mancanza del mondo degli youtuber, così importanti nel primo ciclo di episodi, è stata sostituita dalla comparsa del team creativo, tratteggiato come una massa di poveri artisti di grande talento, ma sempre pronti a essere maltrattati dai capi di turno.

In questo senso, l’elemento migliore della scrittura e della recitazione di Mythic Quest resta l’equilibrio: la comicità più sciocca viene affiancata senza sforzo a tematiche più dense e socialmente rilevanti, senza che una componente cannibalizzi l’altra, trovando anzi continui spunti per alzare o abbassare il tono con un ritmo capace di divertire e interessare, senza mai risultare vuoto da una parte o pedante dall’altra.
Forse il miglior esempio di questo meccanismo sono certi dialoghi in cui vengono affrontati determinati temi linguistici, in cui i personaggi (Ian e Poppy soprattutto) si trovano in difficoltà con certe definizioni o termini che nel mondo di oggi sono diventati sempre più problematici, perché riflessi di discriminazioni, razzismi e misoginie latenti. Ebbene, la misura dell’equilibrio viene trovata nell’evitare sermoni woke eccessivamente pesantoni, senza per questo dare per scontato che certi mutamenti verbali sul posto di lavoro siano stati metabolizzati e digeriti come nulla fosse: i temi si affrontano, si discutono, e fra una gag e l’altra si trova insieme il modo di imparare qualcosa.
In questo sta forse la misura dell’”autenticità”, termine che creatori e cast usano spesso anche nelle interviste: malgrado si guardi un mondo necessariamente surreale ed estremizzato (per esigenze comiche), i personaggi di Mythic Quest sembrano veri perché le loro personalità, il loro muoversi nel mondo e i loro tentativi di comprenderne i cambiamenti vengono prima dei messaggi e delle riflessioni che le loro storie posso portare con sé.

Il risultato è una seconda stagione forse meno “videogiocosa” della prima (e per me è un difetto), ma che non ha perso niente del ritmo, della creatività e dell’eleganza che avevamo imparato a conoscere.
Ah, e vi ricordate che nella prima stagione c’era un episodio apparentemente random con cast e storia completamente diversa dal resto degli episodi? Ecco, anche questa volta c’è qualcosa di simile, alla quinta puntata, e forse è stata la mia preferita.

Ci sentiamo presto per le interviste.



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