26 Maggio 2022

This Is Us – È finito un capolavoro di Diego Castelli

L’ultimo saluto a una delle migliori serie tv della storia delle serie tv

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ATTENZIONE! SPOILER SUL FINALE DI SERIE

Quando finisce una serie come This Is Us, dopo 6 anni e 106 episodi in cui, dentro e fuori lo show, è successo praticamente di tutto, è difficile scegliere da dove partire per provare a scrivere una sorta di riassunto, di punto finale, per tirare le fila di qualcosa che ci sembra veramente troppo grosso.

Io che di mestiere faccio il programmatore televisivo, per esempio, ho bene in mente un tema che probabilmente non interessa alla maggior parte delle persone, cioè il fatto che This Is Us rappresenta l’ultimo grande capolavoro della tv generalista, che altrimenti già da anni avrebbe passato completamente lo scettro a canali pay e piattaforme di streaming.

I canali generalisti americani, che nei decenni hanno sfornato pietre miliari di ogni genere, da Twin Peaks a Beverly Hills 90210, da Lost a ER a Buffy a Friends, sono ormai l’ombra di ciò che erano, in termini di capacità di imporsi sulla serialità dal punto di vista culturale, e proprio This Is Us, nata nel 2016, sembra ora il definitivo canto del cigno, al netto, naturalmente, di twist inaspettati che potrebbero capitare fra due mesi.

Eppure, nonostante questa sorta di nostalgia per il tempo che fu, non mi dispiacerebbe se This Is Us rimanesse proprio l’ultimo squillo generalista, perché di quel “generalismo” è in qualche modo il punto più alto mai raggiunto. È l’emblema finale delle serie capaci di rivolgersi a tutti ma proprio a tutti (in fin dei conti parla di famiglia), ma anche il simbolo di cosa si può fare di un tema teoricamente abusatissimo, quando lo si sa trattare con creatività, eleganza, passione e arte.

Non è un caso che sia una delle poche serie americane di cui una rete come Rai Uno abbia provato a girare un remake: perché effettivamente ce l’ha l’anima da grande fiction, quella pucciosa e super-comprensibile, tesa ma anche rassicurante. Poi però s’è anche visto che non basta un’idea da fiction per realizzare una buona fiction, ci vogliono qualità che gli autori di This Is Us evidentemente hanno, e che quelli di Noi, la versione italiana, non potevano mettere sul campo.

Sui motivi tecnici e stilistici per i quali This Is Us è un capolavoro, abbiamo già parlato tante volte, e forse non è il caso di dilungarsi, anche perché il finale, pur ottimo, non aggiunge niente di nuovo sotto quell’aspetto.

Basta solo ri-sottolineare come nel concept di base di This Is Us, cioè l’idea di raccontare la storia di una famiglia mettendo sullo stesso livello diversi piani temporali, ci fosse già in potenza la cifra stilistica dell’intera serie.

Quando ci diciamo che This Is Us è “ben realizzata”, pensiamo innanzitutto a uno specifico elemento su cui altri drama familiari non giocano, o giocano molto meno: il continuo rimpallo fra i piani temporali, in cui il primo obiettivo degli autori è sempre stato quello di creare connessioni, tirare fili, costruire ponti.

È un obiettivo perfino banale, per certi versi (come dire: era ovvio che dovesse essere così), ma la cui realizzazione è stata tutt’altro che pedissequa o didascalica. Che si trattasse di un insegnamento paterno impartito a 11 anni e rivelatosi decisivo a 40, o di un trauma assorbito e nascosto nell’adolescenza che si ripresentasse nella vita adulta, This Is Us ha lavorato su cose che tutti conosciamo intimamente (il peso del passato, il rapporto con i genitori, con i fratelli e le sorelle, l’amore, l’idea di valori e insegnamenti da ricevere in eredità e continuare a trasmettere) dando loro la forma della poesia, trasformando il potere del ricordo in una sorta di eterno presente da cui i personaggi sono insieme frenati e sospinti, coccolati e frustrati.

La scelta dei momenti decisivi, la coerenza interna delle puntate, la selezione musicale sempre perfetta, la costruzione di un reticolo di sensi e significati lungo intere vite, è la prima e più importante forza di This Is Us, ciò che la resa pietra di paragone per molti drama successivi.

Arrivati al finale, però, ci troviamo comunque di fronte alla possibilità di guardare all’intera serie da tanti punti di vista diversi, quasi quanti sono i personaggi che l’hanno animata. E proprio per questo mi sembra utile vedere cosa succede nell’ultimo episodio, perché è lì che, inevitabilmente, si può cogliere con più sicurezza il punto di vista di chi la serie l’ha creata e cesellata, la cui prospettiva è, inevitabilmente, degna di particolare attenzione.

Giusto per fare un esempio, se l’ultimo episodio non esistesse, si potrebbe scrivere un lungo articolo (e magari qualcuno lo farà, con piena legittimità) per raccontare This Is Us come una grande saga rivelatasi sorprendentemente matriarcale.

Non sarebbe infatti difficile vedere come lo show, per lungo tempo legato all’ingombrante figura di un padre la cui morte segna per sempre i destini di moglie e figli, sia anche la storia di una madre che si prende la responsabilità di diventare unico centro di gravità di una famiglia che, nella sesta stagione, sarà composta da un altissimo numero di personaggi che senza quell’unica donna avrebbero vissuto vite completamente diverse e probabilmente peggiori.

Tutta la storia del passaggio di consegne con Kate, vista qualche settimana fa, era l’ulteriore sigillo su una toccante storia di donne nascosta in quella che sembrava una serie tutta incentrata su un uomo morto (la sto un po’ esagerando, ma ci siamo capiti).

L’ultimo episodio, però, prende ancora una volta un’altra direzione, offrendoci un ulteriore punto di vista, che in realtà è una specie di ritorno alle origini.

Una larga parte dell’ultima puntata, compresa l’ultima scena, è dedicata a Randall. Il che ci riporta effettivamente all’inizio, a quella che era la seconda e forse più vera novità di This Is Us, accanto al racconto diviso su più piani temporali: This Is Us è una serie in cui una coppia di bianchi perde uno dei tre gemelli che stava per dare alla luce, e sceglie di cogliere un segno del destino adottando un terzo bambino, nato da genitori neri.

In fase di lancio della serie questo era evidentemente un ottimo strumento di marketing, una leva con cui titillare l’attenzione del pubblico, e il tema della “diversità” di Randall è sempre rimasto un punto importante nello sviluppo tematico dello show.

Allo stesso tempo, vuoi per abitudine, vuoi per la ricchezza della serie – che non ha mai fatto coincidere quel personaggio esclusivamente con il suo colore della pelle, dandogli uno spessore e delle sfumature molto più larghe e variegate – alla fine quello delle origini di Randall è sembrato diventare un tema come gli altri.

Ecco, in questo contesto la serie arriva a un ultimo episodio che sembra proprio lo strumento per lanciare un messaggio: “Vi siete distratti, è anche colpa mia, ma ora prendiamoci un momento per ritornare al punto centrale della questione.”

Nell’ultima scena dell’ultima puntata, anzi, no, nelle ultime due inquadrature, This Is Us crea un parallelismo silenzioso fra Randall e Deja da una parte (lei figlia adottata e incinta che sta per rendere Randall nonno e che chiamerà suo figlio come il padre dello stesso Randall) e Jack e Randall dall’altra. Un parallelismo fra due coppie di padri adottivi e figli “scelti” più che “capitati”.

Prendendo queste due coppie come chiave di lettura (perché così ci viene suggerito) e allargando lo sguardo, ci rendiamo conto di quanto This Is Us, nel suo complesso, sia una serie che parla dell’amore e della famiglia come scelta, più che come caso o come parentela di sangue.

Jack e Rebecca scelgono di adottare Randall e di imprimere così un corso preciso alla sua vita. Randall sceglie Deja come figlia adottiva e le dà gli strumenti per diventare un’adulta sana e felice. Ma non solo.

Kate sceglie di lasciare Tobey, da cui aveva avuto due figli, ma allo stesso tempo sceglie di restare sua amica e compagna di genitorialità, fino al punto in cui, sempre nell’ultimo episodio, Tobey dice di amarla ancora, ma non in modo possessivo, bensì come accettazione di un percorso comune di vita.

Kevin ha scelto di mettere al mondo due figli con una donna, scegliendo poi di tornare da quella che aveva sempre amato. Nel frattempo, scoprendo di avere uno zio di sangue che non aveva mai conosciuto e che sarebbe potuto rimanere per sempre fuori dalla sua esistenza, sceglie di andarlo fisicamente a prendere e di costruire un rapporto con lui, quasi contro la sua volontà. E arriviamo qui alla chiusura del cerchio con cui Nick si “lamenta” con Kevin di averlo costretto ad affezionarsi alle persone, soffrendo anche le conseguenze dei loro abbandoni, come nel caso della morte di Rebecca (un rimprovero ovviamente ironico, bonario, da parte di qualcuno che da quegli affetti ha tratto una gioia e una completezza che mai avrebbe potuto provare).

Rebecca, dal canto suo, ha scelto di aprirsi all’amore di un altro uomo dopo la morte del primo marito, dando il via a un’altra lunga serie di eventi che abbiamo finito di osservare solo un paio di settimane fa.

Se ci aggiungete i passaggi con William, il padre di Randall che in un ultimo flashback si stupisce dell’amore che un nonno può provare anche dopo pochi mesi dalla conoscenza delle nipoti (una conoscenza che non sarebbe stata possibile senza la decisione di Randall di cercare e trovare William), ecco che tutta This Is Us, tutta la famiglia di This Is Us, diventa una questione di scelte.

In pratica, abbiamo una serie generalista americana (in una nazione dove la famiglia di sangue conta parecchio), in cui di fortissimi legami di sangue che ne sono sicuramente molti, che però ci lascia con un messaggio molto preciso che con il sangue c’entra relativamente poco.

Tutto questo amore, tutte queste persone riunite e strette in legami indissolubili, sono lì perché di volta in volta hanno scelto di esserlo. Non è un accrocchio casuale di parenti, è una piccola comunità che ha deciso di stare insieme e che ha combattuto, spesso duramente, per riuscirci. È una famiglia nata dalla volontà, molto più che dal caso. Una famiglia in cui una figlia può dire a suo padre adottivo che sta per diventare “nonno”, senza che la mancanza di un legame genetico possa in alcun modo sporcare questo sentimento.

In fondo quello del caso, del destino, è un altro tema su cui This Is Us ha giocato spesso. L’idea stessa di costruire uno folto reticolo di rimandi interni che si snodano per decenni di vita, rappresenta una sorta di determinismo seriale in cui sembra che sia tutto collegato e immodificabile.

In realtà, però, chi ha seguito la serie sa benissimo quante volte i personaggi siano stati messi di fronte a delle scelte che ponevano effettive alternative, ugualmente percorribili. Non sono state sempre prese le scelte giuste, anzi, ma è nell’unione fra caratteri e spiriti diversi, un’unione nuovamente scelta e difesa con forza, che i protagonisti hanno trovato la spinta per superare le avversità. Lo dice bene la giovane Kate mentre sta giocando al gioco della coda dell’asino: “Prima di mettermi la benda sugli occhi, guardo dove siete tutti voi, che non state mai zitti, e finché so dove siete, so sempre dove sto andando”.

La famiglia, intesa come rapporti costruiti con la volontà e l’impegno, a prescindere dall’effettiva parentela, è poi ciò che consente di dare senso alle cose, e di tramandarlo perfino.
Sempre nella scena finale, appena prima del parallelismo sopra citato fra Randall, Jack e Deja, c’è una giovane Rebecca distesa sul letto con Jack, commossa e impaurita per il fatto che i figli stanno crescendo.
“Non voglio lasciarli”, dice Rebecca, e Jack risponde “Non li lascerai, vedrai”.

Questa frase, che noi ascoltiamo mentre su un altro piano temporale c’è proprio il funerale di Rebecca, è il perfetto simbolo di come quel reticolo di senso, quel fitto intersecarsi di legami, sia ciò che alla fine ci sopravvive, si perpetua, resta anche dopo che ce ne siamo andati, formando le generazioni future, tutto a partire dal modo in cui abbiamo scelto di agire e di comportarci con le persone (fossero anche neonati) che abbiamo incontrato sul nostro cammino.

Se noi siamo qui, io a scrivere e voi a leggere, è perché riteniamo che anche le serie tv possano contribuire alla costruzione di quel reticolo. Le nostre sono vite piene di eventi, impegni e persone, al cui confronto gli episodi di un telefilm possono sembrare poca cosa, e forse lo sono.

Ma la mia impressione è che in tutti questi anni, e in quella montagna di episodi che poi non sono altro che la manifestazione audiovisiva di pensieri, riflessioni e sogni di artisti che sono persone come noi, abbiamo trovato parte degli strumenti necessari alla costruzione del nostro reticolo, un percorso che noi abbiamo scelto di seguire invece di percorrerne un altro.

E se le serie tv possono effettivamente insegnarci qualcosa, come io credo che possano, allora sono convinto che potremo ricordare This Is Us come una di quelle che ce ne ha insegnate di più.



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